venerdì 24 gennaio 2020

Salt and Fire

Salt and Fire (2016) sarebbe un film stupendo se solo fosse la trasposizione delle avventure di Indiana Pipps, ma visto che qui non siamo sulle pagine di Topolino, be’, di stupendo non c’è proprio un bel niente e pur dotandoci del massimo impegno e del massimo rispetto che si possono impiegare per approcciare l’ennesima fatica di Werner Herzog, è disarmante la bruttezza di una prima ora appesantita da un’atroce verbosità in cui gli attori parlano e parlano senza che alla fine resti qualcosa di quanto hanno detto, perché questa storia davvero sgangherata, il cui spunto proviene dal racconto Aral di un certo Tom Bissell (curiosità: lo scrittore americano fu fonte di ispirazione anche per The Loneliest Planet [2011], altro film con Gael García Bernal), si rivela un modesto pretesto per far sì che il regista tedesco possa girare in uno di quei set estremi che tanto lo attizzano (‘sta volta è un lago salato boliviano), infatti se a mente fredda si ragiona sull’impianto sceneggiaturiale e sulle motivazioni che portano il signor Riley (è Michael Shannon, alla seconda collaborazione dopo My Son, My Son, What Have Ye Done, 2009) a comportarsi così, c’è da rabbrividire, se non da ridere, e a causa di una tale insulsa traccia narrativa ne risente anche l’atmosfera generale che non si scrolla di dosso un fastidioso puzzo di fittizio proveniente dritto dritto da Queen of the Desert (2015), in breve è tutto amaramente sconsolante: il goffo trio diplomatico, la banda di rapitori, la professoressa che diventa una sosia povera della Kidman/Gertrude Bell… oh mamma! Il tasso di improbabilità che caratterizza ogni singolo elemento dell’opera raggiunge vette di inguardabilità purtroppo mai toccate prima.

Che Herozg sia un autore orientato a dare il meglio di sé lontano dalla fiction è un dato ampiamente risaputo, non a caso nella seconda metà degli anni ’10 l’unico oggetto in grado di staccarsi un minimo dalla netta insufficienza è stato il documentario Dentro l’inferno (2016), tuttavia in passato aveva dimostrato che poteva starci anche lui nel campo della rappresentazione (al di là del periodo d’oro con Kinski, Il cattivo tenente [2009] ed il già citato My Son, My Son… erano prodotti più che vedibili), adesso invece appare manifesto di come le idee siano terminate e che anche quando si tenta un ritorno alle origini il buco nell’acqua si profila inevitabile, infatti, una volta sopravvissuti alla prima invedibile parte, Salt and Fire propone un tipico cliché herzoghiano tramandato negli anni, ovvero l’Uomo con/disgiunto alla Natura, inutile ribadire che anche in codesta ottica le cose non vanno e a parte l’introduzione dei due gemellini ciechi, più affascinante per l’impatto estetico (due bimbi nel mezzo di un deserto bianco) che per il ridicolo piano di Riley, la permanenza della bionda dottoressa sull’isola ci consegna un Herzog incapace di fare ciò che più gli riusciva bene, ossia di restituirci attraverso il cinema la bellezza insondabile della natura ed il corrispettivo smarrimento dell’essere umano, sicché, a prescindere dall’ammirabile set, non si registra un solo attimo dove le immagini riescono a tradurre quella possanza naturalistica, i vari campi lunghissimi, le camere-car e i droni adoperati nello sforzo di dare un peso importante all’ambiente, finiscono per plastificarlo ulteriormente tanto che in conclusione si ha quasi l’impressione di non assistere più ad un film di Herzog ma ad una sessione fotografica di Vogue con impeccabile modella ariana (sosia, tra l’altro, di Kirsten Dunst) piazzata in un patinato deserto e dotata di un tablet Samsung dalla batteria illimitata.

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