Salt and Fire (2016)
sarebbe un film stupendo se solo fosse la trasposizione delle
avventure di Indiana Pipps, ma visto che qui non siamo sulle pagine
di Topolino, be’, di stupendo non c’è proprio un bel niente e
pur dotandoci del massimo impegno e del massimo rispetto che si
possono impiegare per approcciare l’ennesima fatica di Werner
Herzog, è disarmante la bruttezza di una prima ora appesantita da
un’atroce verbosità in cui gli attori parlano e parlano senza che
alla fine resti qualcosa di quanto hanno detto, perché questa storia
davvero sgangherata, il cui spunto proviene dal racconto Aral
di un certo Tom Bissell (curiosità: lo scrittore americano fu fonte
di ispirazione anche per The Loneliest Planet [2011], altro
film con Gael García Bernal), si rivela un modesto pretesto per far
sì che il regista tedesco possa girare in uno di quei set estremi
che tanto lo attizzano (‘sta volta è un lago salato boliviano),
infatti se a mente fredda si ragiona sull’impianto sceneggiaturiale
e sulle motivazioni che portano il signor Riley (è Michael Shannon,
alla seconda collaborazione dopo My Son, My Son, What Have Ye Done, 2009) a comportarsi così, c’è da rabbrividire, se non
da ridere, e a causa di una tale insulsa traccia narrativa ne risente
anche l’atmosfera generale che non si scrolla di dosso un
fastidioso puzzo di fittizio proveniente dritto dritto da Queen of the Desert (2015), in breve è tutto amaramente sconsolante: il
goffo trio diplomatico, la banda di rapitori, la professoressa che
diventa una sosia povera della Kidman/Gertrude Bell… oh mamma! Il
tasso di improbabilità che caratterizza ogni singolo elemento
dell’opera raggiunge vette di inguardabilità purtroppo mai toccate
prima.
Che Herozg sia un autore
orientato a dare il meglio di sé lontano dalla fiction è un dato
ampiamente risaputo, non a caso nella seconda metà degli anni ’10 l’unico oggetto in grado di staccarsi un minimo dalla netta
insufficienza è stato il documentario Dentro l’inferno
(2016), tuttavia in passato aveva dimostrato che poteva starci anche
lui nel campo della rappresentazione (al di là del periodo d’oro
con Kinski, Il cattivo tenente [2009] ed il già citato My
Son, My Son… erano prodotti più che vedibili), adesso invece
appare manifesto di come le idee siano terminate e che anche quando
si tenta un ritorno alle origini il buco nell’acqua si profila
inevitabile, infatti, una volta sopravvissuti alla prima invedibile
parte, Salt and Fire propone un tipico cliché herzoghiano
tramandato negli anni, ovvero l’Uomo con/disgiunto alla Natura,
inutile ribadire che anche in codesta ottica le cose non vanno e a
parte l’introduzione dei due gemellini ciechi, più affascinante
per l’impatto estetico (due bimbi nel mezzo di un deserto bianco)
che per il ridicolo piano di Riley, la permanenza della bionda
dottoressa sull’isola ci consegna un Herzog incapace di fare ciò
che più gli riusciva bene, ossia di restituirci attraverso il cinema
la bellezza insondabile della natura ed il corrispettivo smarrimento
dell’essere umano, sicché, a prescindere dall’ammirabile set,
non si registra un solo attimo dove le immagini riescono a tradurre
quella possanza naturalistica, i vari campi lunghissimi, le
camere-car e i droni adoperati nello sforzo di dare un peso
importante all’ambiente, finiscono per plastificarlo ulteriormente
tanto che in conclusione si ha quasi l’impressione di non assistere
più ad un film di Herzog ma ad una sessione fotografica di Vogue con
impeccabile modella ariana (sosia, tra l’altro, di Kirsten Dunst)
piazzata in un patinato deserto e dotata di un tablet Samsung dalla
batteria illimitata.
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