venerdì 19 maggio 2017

Queen of the Desert

Se questo fosse un blog che tratta assiduamente cinema da botteghino allora su Queen of the Desert (2015) si spenderebbero anche parole benevole, soprattutto se si vede il film nell’ottica della prova più commerciale di un regista che è sempre stato un po’ al limite tra l’autorialità e non. In fondo, si potrebbe pensare, quest’opera di Herzog fila via senza particolari intoppi ed inoltre, nonostante il palese taglio per il grande pubblico, permangono dei segnali di appartenenza al curriculum del bavarese. Ma ad oltre il fondo, che del vecchio Werner ha parlato molto nei tempi andati, l’arte di Queen of the Desert non interessa perché non c’è arte, solo dollaroni profumati che tradotti sullo schermo significano schematizzazione e preparazione algoritmica della biografia di Gertrude Bell che in realtà potrebbe tranquillamente essere la biografia di qualunque altro personaggio storico, e penso ciò perché è patetico assistere ad un’insistenza sulle tematiche sentimentali cucendo due impalpabili liasion addosso la lattea pelle della Kidman [1], ma quello che è patetico è il pane delle masse, per cui taccio lasciando a loro l’illusione di fruire qualcosa che trasmetta emozioni (sono solo situazioni prefabbricate, stolti!).

Primi quaranta minuti indecenti, probabilmente il peggior Herzog mai visto, a confronto i suoi due precedenti lungometraggi di finzione in terra yankee sono delle pietre miliari (Il cattivo tenente [2009] e My Son, My Son, What Have Ye Done [2009]), dopo si rileva il cuore della pellicola diviso a metà: da una parte è leggibile una sovrapposizione tra il creatore e la creatura, Gertrude è un avatar di Herzog l’esploratore/viaggiatore/archeologo di storie e scopritore di umanità, dall’altra si intuisce un possibile sottotesto che rimanda all’attualità dove le comunità arabe dell’epoca dimostrandosi accoglienti e rispettose verso la donna inglese proiettano un possibile messaggio di fratellanza. Tenendo bene a mente che quanto appena detto si genera da un impianto che più classico non si può, va ora ricordato che Herzog non è mai stato granché famoso per i lavori di fiction, a parte il fortunato periodo al fianco di Kinski tra gli anni ’70 e ’80, non sono stati di certo oggetti come Grido di pietra (1991) o L’alba della libertà (2006) ad averne accresciuto la fama e la rispettabilità, però con Queen of the Desert ha toccato davvero il punto più basso, qui c’è tutta una professionalità che non vorremmo vedere e c’è una barriera che limita la fruizione dato che il limite è proprio la rappresentazione poiché è essa stessa limitante di per sé: come si può credere ad un deserto che sembra una zona pedonale coperta di sabbia dove tutti, anche i beduini più dispersi tra le dune, parlano un buon inglese? La costruzione fittizia, il non volersi “fidare” della realtà, luogo dal potenziale filmico infinito, preferire la recitazione alla spontaneità della vita, sono queste le difficoltà che affliggono il film, ed Herzog paradossalmente saprebbe anche come comportarsi, eccome se lo saprebbe!, lui era già stato in un luogo così impervio, ma i tempi di Apocalisse nel deserto (1992) sembrano così lontani…
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[1] Ne vogliamo parlare di una cinquantenne spacciata per un’irrequieta giovinetta? Questo è il dazio da pagare quando conta più la vendibilità del prodotto che la sua concreta qualità.

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