martedì 2 maggio 2017

Ore wa Sono Sion da!

Dal titolo si srotola un lungo tappeto percorribile con gli occhi, perché Ore wa Sono Sion da! (1985), che si tradurrebbe all’incirca con Io sono Sono Sion!, contiene quel potere ostensivo che si percuoterà come un sisma in tutta la filmografia di lì a venire del giapponese. Sfido a trovare un film di Sono dove non ci sia uno slancio autobiografico dei personaggi sulla scena (ce n’è più di uno, e guarda caso si tratta di due delle opere peggiori: Be Sure to Share [2009] e The Land of Hope [2012]), slancio occultante null’altro che la vera autobiografia, quella di Sono stesso che nel suo cinema ha spesso trovato nei vari personaggi degli evidenti alter ego, e qui il discorso trova apice per ora in Why Don’t You Play in Hell? (2013). Constatato il focus sull’identità riassunto nel titolo e ripetuto due tre volte da un giovane Sono davanti alla cinepresa, ciò che costituisce il resto di Ore wa Sono Sion da! è di una amatorialità lampante, tanto da far apparire il corto d’esordio Love Song (1984), di cui vengono riproposti dei brandelli, un lavoro più “maturo” con almeno una sottospecie di idea a sorreggerlo.

Che cosa accada in Ore wa Sono Sion da! è un mistero imperscrutabile, inizialmente parrebbe una specie di diario dove Sono annota date, ore e minuti facendo il countdown del suo compleanno (il pensiero va a Keiko desu kedo, 1997), ma nel giro di poco si degenera in un pasticcio dilettantesco che forse, e sottolineo forse, vorrebbe mostrare la realizzazione di un film in itinere e quindi fare del metacinema ante litteram, il risultato è però lontanissimo dal minimo sindacale e lo spettatore è costretto a vedere Sono che: con una vocina stridula e comportandosi come un buffone intervista una ragazzina; si fa rapare la testa urlando e ansimando; amoreggia nudo con dei busti di statua. Il tutto, come detto, trasmesso con un metodo privo della benché minima professionalità e, mi permetto di aggiungere, orfano di un progetto guida. È davvero un film in preda a raptus insensati e mal assortiti, l’unico spunto interessante è quando Sono, verso la fine, inizia a dissertare sull’effettiva presenza nella diegesi e su ciò che la camera riesce a cogliere o meno, briciole teoriche che nella prima stagione della carriera troveranno poi completamento in alcuni fugaci blitz sperimentali.

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