mercoledì 29 gennaio 2020

Solo te puedo mostrar el color

Non basta vedere Solo te puedo mostrar el color (2014) per capire davvero di cosa tratta, bisogna andare più a fondo mettendosi alla ricerca di notizie in Rete, solo così il disegno composto da Fernando Vílchez Rodríguez assume contorni più comprensibili, e sul fatto che lo spettatore sia praticamente obbligato a scovare ulteriori informazioni per dare una direzione a ciò che ha visto io non lo intendo come un difetto, anzi è indice di almeno due fattori moderatamente positivi: di quanto l’opera sia priva di indirizzamenti netti e facili da recepire e di quanto la stessa sia potenzialmente aperta nella sua fruizione ad altri media. Comunque sia, il secondo cortometraggio del regista peruviano si distingue per un corpo duplice, anche se non tutto inizialmente è chiaro, è tuttavia registrabile un appaiamento di immagini che dà da pensare: una parte è costituita da istantanee di repertorio (come fu per The Calm, 2011) mentre l’altra vede un gruppo di filmmaker che con le loro videocamere riprendono gli ambienti naturali circostanti, si modella dunque un dialogo tra i due registri che ha un punto di contatto proprio nell’area geografica presa in esame.

Siamo nel recondito Perù, in un luogo immerso in una fitta giungla amazzonica, e ciò che compie Vílchez Rodríguez è una specie di elegia che attraverso il cinema commemora una tragedia civile avvenuta nel 2009, il cosiddetto Baguazo. Anzi, più che commemorare l’autore compie un apprezzato gesto di emersione poiché di tale sopruso ai danni di una tribù indigena sfociato poi in un vortice di violenza che ha lasciato dietro di sé trentatre cadaveri non si sapeva niente, e la metodologia con il quale effettua lo “scavo archeologico” è piuttosto semplice: mette in rapporto il passato con il presente senza che vi siano didascalie specifiche atte a sottolineare né l’una né l’altra dimensione temporale, siamo noi, grazie ai nostri occhi, che ricuciamo le due (d)istanze; ci sono due immagini montate consequenzialmente che credo riassumano il senso del progetto: nella prima vediamo in un video fatto presumibilmente con un cellulare alcuni corpi stesi sul terreno, nella seconda, più nitida, più attuale, vediamo solo il terreno, nel salto cronologico e tecnologico ci sono gli intenti di Vílchez Rodríguez, illuminare senza schierarsi una porzione di storia che merita attenzione nobilitandola come esige per mezzo delle sconfinate qualità insite nella settima arte [1]. Il finale, “strano” ed enigmatico, mi ha trasportato per un attimo in un film di Pablo Chavarría Gutiérrez.
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[1] Un approccio ad una brutta storia sconosciuta simile a quello di Rodríguez si può ritrovare in Muerte blanca (2014) di Roberto Collío, forma diversa, sostanza uguale.

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