Come
relazionarsi con un regista nato nel 1989 capace di
girare film che, se portassero in calce la firma di Tsai Ming-linag,
Wong Kar-wai o qualche altro maestro asiatico, nessuno ne rimarrebbe
meravigliato? Come rapportare poi il fulgido debutto con l’opera
seconda quando quest’ultima è a conti fatti la rielaborazione di
quella precedente? In tutta onestà (o più probabilmente in tutta
codardia) non so dare risposte nette a domande del genere, la visione
di Diqiu zuihou de yewan
(2018) lascia interdetti, e per quanto possa valere la mia opinione
io stesso, leggendo per esempio due pareri piuttosto divergenti come
la recensione entusiasta di Grosoli (link) ed il commento più
tiepido di Negro (link) con le quali, incoerentemente, concordo,
fatico, tutt’ora, a riordinare le idee. Sicuramente è un film che
lascia il segno, non solo nello spettatore, ma, penso, anche nel
cinema contemporaneo orientale e non, del resto già con Kaili Blues
(2015) Bi aveva dato segnali di un’autorialità a cui quasi non si
credeva dimostrando già una linea e uno stile da Grande, ma Grande
davvero. Ora, maneggiando il suo secondogenito, non si può evitare
di lodarlo per la finezza stilistica che lo forgia, se piacciono le
impostazioni elaborate dove scenografi e direttori della fotografia
mettono in campo tutta la loro professionalità allora Un lungo viaggio nella notte è
un prolungato orgasmo di due ore e diciotto minuti. La raffinatezza
della messa in scena se la gioca alla pari con una sofisticata
sceneggiatura che rafforza la continuità argomentativa di Bi, ovvero
un mix indistinguibile tra tempo, spazio e sogno, materie a dir poco
incandescenti se applicate come si deve al mezzo-cinema.
E la prima parte, che potremmo considerare nient’altro che una
lunga introduzione all’inizio del film, è un dedalo in cui
consiglio spassionatamente di perdersi, qui il regista riduce al
minimo i confini che separano le varie coordinate e succede che i
vari piani dimensionali e temporali si mescolino in un sempre
elegante flusso ipnotico. Se si ha la pazienza di seguire il
protagonista sulle tracce di una figura femminile perduta che
talvolta assume una configurazione materna e talvolta una
erotico-sentimentale, sarà facile venire assorbiti da un ordito le
cui maglie parametrano cortocircuiti in serie, sfasamenti,
traboccamenti, illusioni, slabbrature, insomma il depliant è ampio e
ricco ed è realmente godibile solo se si è predisposti a certi
ritmi e a certe soluzioni tecniche. La percezione principale che si
ha della storia narrata vede nell’assenza del Tempo, o per meglio
dire dell’assenza di una categorizzazione del Tempo (non a caso
nessun orologio funziona), il punto di rottura in grado di far
convergere in una realtà costantemente ubicata nel presente
(filmico) la memoria di un persona e gli ectoplasmi che la popolano.
Ci sono eventi richiamati da dialoghi o descrizioni antecedenti che
al momento di verificarsi hanno però soggetti diversi, dei dettagli
si ripetono senza essere mai uguali a se stessi, epifanie
indescrivibili illuminano per poi rivelarsi fuochi fatui, permane,
dall’inizio alla fine, una sensazione di sfuggevolezza, è come se
la ricerca di Luo Hongwu in luoghi che via via hanno sempre meno
connotati fisici sfumasse nel suo stesso vagare e divagare. Se questi
sono punti a favore di Bi spetterà a voi dirlo, il fascino,
comunque, non manca mai.
E
non manca, sarò banale, nel sontuoso (e forse anche mostruoso) piano
sequenza che sostanzia la seconda parte della pellicola. Anticipato
da una chiara strizzatina d’occhio a chi assiste (l’uomo che in
un cinema si infila degli occhialini 3D, metodo effettivamente
utilizzato da Bi), e generato da un superbo incontro con quello che
potrebbe essere – personale opinione – il figlio mai avuto o
avuto e perso nella caverna-utero (ce lo ricorda la faccenda del ping
pong), dal segmento di cinema in oggetto si viene a dir poco
risucchiati, Bi sfodera un arsenale di prim’ordine dove droni e
steadycam rendono l’immagine fluttuante, fluida oltre il reale, si
supera Kaili Blues,
si supera tutto e tutti. È un’estremizzazione dello stile il cui
effetto, e lo asserisco a mente fredda perché durante la proiezione
era totalmente rapito dalle traiettorie della mdp e quindi incapace
di formulare la benché minima osservazione, potrebbe spazientire, se
non irritare, chi preferisce la sostanza, comunque tangibile, alla
forma, ammesso e non concesso che le due istanze, ad un certo punto
(e potrebbe essere proprio il punto
in esame), non arrivino a sovrapporsi facendoci dire che la forma è
la sostanza o viceversa. Ad ogni modo, l’appunto che sento di fare
a Bi Gan è di non aver modificato in niente la struttura di Un lungo viaggio nella notte rispetto
all’esordio ed è da ciò che sono sorte delle “accuse” legate
ad un eventuale manierismo che, lo ammetto, hanno toccato anche chi
scrive. Poi ci sarebbe da discutere a lungo sulla libertà espressiva
di un regista che vuole essere un autore, su ciò che può fare o non
può fare, nel frattempo attendiamo un nuovo film di Bi Gan, sperando
di venir ancora strabiliati, magari con qualcosa che non abbia a che
fare con un piano sequenza.
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