
Prima di
vedere Le bois dont les rêves sont faits (2015) non avevo
idea di chi fosse Claire Simon, ma a film ultimato, durante il solito
rintracciamento di informazioni per rimpolpare il commento, ho letto
una frase citata sulla sua pagina francese di Wikipedia (link) che mi
è subito piaciuta molto: “si la banalité contient de la fiction,
le travail de la cinéaste est de la débusquer”, è un pensiero
che leggo in due modi, entrambi sostenibili in un’ottica autoriale,
nel primo scorgo una frecciatina agli impianti finzionali che
caratterizzano il cinema per il grande pubblico, mentre nel secondo
vedo una vera e propria manifestazione di intenti che accoglie la mia
personale predisposizione verso la settima arte, l’unico termine
che sostituirei è “réalité” con “banalité” e poi il
concetto, per me, sarebbe perfetto. Una tale spinta teorica di
ricercare una vena narrativa anche in un materiale di per sé crudo
come lo è un documentario, si rispecchia anche in quest’opera che
i Cahiers du cinéma misero al decimo posto nella loro top ten del
2016, Simon si avvale di un procedimento non troppo dissimile da
quello utilizzato dal nostro Giovanni Cioni, ovvero un insinuarsi in
un tessuto sociale non semplice arrivando a toccare un certo grado di
confidenza con le persone conosciute, il regista italiano è uno che
va decisamente a fondo (in tutti i sensi che volete intendere),
mentre qui la collega francese rimane più in superficie perché
preferisce avanzare per quantità accumulando storie su storie, del
resto l’ambiente delle riprese impone quasi una molteplicità di
sguardi, ci troviamo infatti a Bois de Vincennes, un enorme parco
pubblico non lontano da Parigi che è ciò che resta oggi di un’area
boschiva d’epoca romana (praticamente il corrispettivo europeo del
bosco urbano visto in Mata Atlântica,
2016), e cosa fa Claire Simon? Scandendo il tempo filmico attraverso
il passare delle stagioni, si aggira per lo spazio verde incontrando
l’umana varietà che lì vi transita, lavora o abita.
Non mi va di
soffermarmi troppo sui lacerti esistenziali di cui siamo testimoni,
dalle prostitute che operano tra le frasche passando per i gay
solitari desiderosi di una sveltina, gli allevatori di piccioni, i
pittori, i guardoni, i pescatori, i paria fino ad arrivare agli
immigrati asiatici o africani, tutti i racconti che da essi fluiscono
sono stimolanti e meritano di essere ascoltati, pertanto un grazie
alla Simon vale la pena dirglielo. La pellicola tuttavia non è solo
il mettere in fila delle pseudo-interviste da reportage televisivo,
mi va di considerare il Bosco di Vincennes come un corpo vivo che
trova nel cinema una maniera per essere ritratto, l’autrice non ha
tempere e cavalletto ma il paesaggio che riesce a imprimere in video
ha una moltitudine di sfumature e colori, certamente sono tonalità
autunnali perché l’occhio si posa principalmente sugli sconfitti e
gli emarginati, ed altrettanto certamente è in cornici del genere
che si verificano fruttuosi scambi di empatia (penso alla commozione
dell’uomo cambogiano che ha lasciato il padre nelle mani dei khmer
rossi). Se Le bois... fosse
musica sarebbe una melodia che scorre tra una riva di archi
dall’ampio respiro malinconico e un’altra costituita da
inserimenti elettronici, notturni, una ferita naturale vicina alla
città da cui spurga un’umanità sulle tracce di una possibile
resilienza, o più pragmaticamente la possibilità di un cinema che,
come i maestri contemporanei insegnano, sa farsi forum di evocazioni,
sia terrene che metafisiche (in un qualche tempo compare anche il
fantasma di Gilles Deleuze), e che pur radicandosi nel reale si
proietta in aperture con panorama sul mistero.
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