martedì 27 giugno 2023

Lenny

L’impostazione visiva di Dene wos guet geit (2017), in particolare quella riguardante gli ambienti esterni, nasce da Lenny (2009), anche qui il regista svizzero Cyril Schäublin utilizza delle inusuali riprese fisse dall’alto per immortalare degli spazi urbani, non si tratta di uno studio architettonico ma antropologico, eh già perché ciò che lo spettatore riceve di questo cemento e grigiore metropolitano è una riflessione sullo stato esistenziale dell’essere umano nella città. Niente che passerà agli annali della sociologia, però tali inquadrature sono funzionali ad esprimere la condizione di solitudine del nostro giovane protagonista, è interessante il divario ottico tra l’incombenza dei muri e dei palazzi in rapporto alla statura del ragazzo, c’è un nonsisache di opprimente, di triste, sensazione più schietta rispetto al lungometraggio successivo che andrà per sentieri estetici un filo narcisistici. Un aspetto “nuovo” è la presenza di una controparte interna che comunque non muta l’atmosfera generale, anzi se possibile implementa l’impressione di isolamento, e lo fa con il semplice escamotage di porre la mdp di fronte l’adolescente al computer circondato da un fitto e indistinto buio. Senza perderci in chiacchiere: Schäublin, a Lenny visionato, pare sia uno a cui la forma dei suoi lavori stia molto a cuore, lo prendiamo di buon auspicio per le opere che, si spera, verranno.

Proseguendo con il parallelo corto-lungo, sul versante argomentativo ci sono ancora dei punti di contatto con Dene wos guet geit. Partendo dal presupposto che la società occidentale ivi illustrata sia una società con serie difficoltà nell’allacciare dei legami, Schäublin intercetta un nodo della contemporaneità che, trovandoci nella prima decade degli anni 2000, era giusto agli albori. In una breve sequenza vediamo lui al PC che passa in rassegna quanto Internet può offrire, ma è solo quando incappa nella youtuber Lenny che la sua attenzione viene rapita. Sebbene non vi sia un’interazione tra i due, nemmeno virtuale, la figura oltre lo schermo della ragazza assume i connotati libidici di un desiderio, sì sessuale, ma forse non soltanto: facendosi forte della condizione di Anton, Schäublin fa intendere che il canale YouTube di lei sia la finestra su un mondo da immaginare sicuramente più attraente di un pallone calciato ogni giorno contro una parete. È l’amaro senso delle odierne vite iper-connesse, è l’illusione mediata da un dispositivo elettronico, certo la faccenda per via dell’epoca di riferimento è ante litteram però c’è, e il regista compie un ulteriore step intuendo la pervasività del mezzo con la questione del burqa, nessun sottotesto, nessuna denuncia e men che meno additamento, solo la testimonianza dei tempi che correvano e che, evoluti, corrono tutt’ora.

Nessun commento:

Posta un commento