Dopo la comparsa del titolo sullo schermo, la pellicola abbandona l’impostazione di riferimento per costeggiare le ibride zone della docufiction. Da qui l’incidere si fa estemporaneo, in pratica non si dà più peso alla progressività degli eventi ma si porta avanti la causa esistenziale di Hay per mezzo di timidi segnali che richiamano la vicenda mortuaria dell’infanzia. Il la è dato dal maldestro tentativo di uccidere una pecora che provocherà una ferita alla coscia, emissione di sangue = emissione di viscere, sicché dal nulla Aktaş mostra poi i cadaveri coperti di alcune persone annegate in mare proprio dove Hay e i suoi amici stavano facendo il bagno, infine, in una escalation (vabbè...) di tensione, all’interno di un cantiere sembra che possa accadere il peggio da un momento all’altro (l’apparizione conclusiva dell’uccello è da grosso punto interrogativo). Nel mezzo si alternano parentesi di semi-quotidianità che non ho trovato granché funzionali alla prospettiva luttuosa, un leggero tedio nell’osservare una battuta di pesca o l’abbattimento di un albero non sono compensati dai possibili agganci concettuali, è vero che Dead Horse Nebula non è un film che si affida alla letteralità, ma l’operazione che compie nell’area del reale non è tanto efficace quanto lo sono miriadi di esemplari che popolano la scena contemporanea, meglio non infierire inoltre sulla forzata sequenza del fiume che vorrebbe scombinare i piani temporali. Ad oggi l’unica voce che vale la pena seguire in Turchia (chiaramente tenendo conto dei miei limiti conoscitivi) è Gürcan Keltek, altrimenti l’emulazione imperversa.
martedì 6 giugno 2023
Dead Horse Nebula
Da buon
allocco quale sono mi è bastato adocchiare non ricordo dove il
poster di Dead Horse Nebula (2018), un poster dalle
reminiscenze reygadasiane (cfr. Our Time [2018],
siamo vicini al plagio), per spingermi alla visione di questo film
turco diretto da un esordiente di nome Tarık Aktaş. Ovviamente di
enormità pari al collega messicano neanche l’ombra, piuttosto,
almeno nel lungo preambolo, un proseguimento sui binari che altri
connazionali del regista hanno percorso negli ultimi anni, e quindi
seguendo i dettami del vate Nuri Bilge Ceylan l’inizio è ancora,
per l’ennesima volta, quello di una Turchia rurale con tutti gli
annessi e connessi che ben conoscete, e io, tra lo sbadiglio e lo
spavento, ho temuto che anche la restante parte dell’opera si
sviluppasse in tale direzione. In realtà il prologo serve ad Aktaş
per puntellare la storia di Hay, ci si potrebbe quasi spingere a
considerare che il contatto ravvicinato con il cavallo morto abbia
una valenza più che altro simbolica, se lo si nota il bambino
pungolando il manto equino apre un varco dal quale fuoriescono vermi
e budella e la mdp si sofferma sulla matassa organica colata a terra
come se il nostro sguardo divenisse quello del protagonista.
L’episodio, che ripeto è inserito in un contesto “da cinema
turco” fatto di formati panoramici, cieli azzurri, campi e
poliziotti che ispirano poca fiducia, non avrà conseguenze dirette
con il resto del film, almeno non in maniera esplicita, l’idea
globale, presumo, sarebbe stata quella di mettere in atto una
perpetuazione funerea che rintocca nella vita adulta di Hay, da buone
intenzioni del genere il risultato finale ha, per il sottoscritto,
delle pecche.
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