giovedì 9 settembre 2021

Diamantino - Il calciatore più forte del mondo

Escludendo Palácios de Pena (2011) che peraltro non raggiungeva un’ora complessiva di girato, il debutto nel lungometraggio per Gabriel Abrantes arriva solo nel 2018 con Diamantino, sempre con l’aiuto del sodale Daniel Schmidt, il che suona un po’ strano perché il nome di Abrantes gira da tanti anni nei circuiti cinefili ma ciò si è dovuto ad una cospicua produzione di corti che sono passati in molti Festival in giro per il globo, suona meno strano, invece, il film sotto esame che detto tra noi strano lo è eccome, tuttavia se inserito nel curriculum del portoghese allora direi che si è in linea con quanto l’ha preceduto, anzi, visto il maggior minutaggio a disposizione Diamantino è un bel pentolone eccentrico che ha come base la riproduzione apocrifa di un Cristiano Ronaldo, i registi modellano a loro divertimento un calciatore-idolo, un asso del football, che però ci riserva una sorpresa: è un bambinone, un personaggio disneyano dal cuore immacolato (e ancora una volta viene spontaneo ricordare il legame tra il cinema lusitano contemporaneo e la fiaba), e il dotare di tali caratteristiche il protagonista è una mossa disorientante che rovescia le aspettative tanto da farci subito prendere atto di un aspetto: l’opera non è un ritratto satirico di Ronaldo e men che meno è la parodia di un campione, è, al contrario, la messa in scena parossistica di ciò che lo circonda. A partire dalla famiglia, con due sorelle arpie (anch’esse, ovviamente, disneyane) che pensano a sfruttare il fratello per ingrassare i loro conti segreti a Panama, arrivando ad un’intera nazione e al progetto iper-sovranista di staccarsi dall’Unione Europea usando Diamantino come un Balilla clonabile. Quindi non l’ipotizzabile figura di uno sportivo miliardario, che ha tutto, ogni tipo di lusso, ogni donna, ogni capriccio, però vuoto di sensibilità, di emozioni, di valori, ma, all’opposto, una realtà esterna che è un mare di squali pronti ad azzannare il povero e ignaro fuoriclasse.

Per portare avanti questo gioco che viaggia sul binario dell’incomprensione (spassosi i travisamenti sulle parole da parte di Diamantino), Abrantes si rifà ad un immaginario che ha coltivato nei lavori precedenti, da The Hunchback (2016) e The Artificial Humors (2016) pesca un uso della computer grafica che ha un nonsoche di gradita artigianalità (vogliamo parlare dei cagnolini extralarge che scorazzano per il campo? Un tenero, tenerissimo trip) dal quale deriva un’atmosfera che, di nuovo, ha un nonsoche di futuristico, quella tipologia di fantascienza che pensa ad un mondo non troppo lontano dal nostro, e qui, in una trama che accoglie una varietà di registri, c’è anche spazio per un accenno di spionaggio con Aisha che nel finale fa irruzione nell’antro dei cattivi in costume da bagno neanche fosse una Bond girl. In uno zibaldone del genere gli autori riescono a non risultare posticci nemmeno inserendo la questione dei migranti, anzi è a loro utile per innervare l’umanità del fantasista di un amore verso i più deboli, una necessità che troverà catarsi con l’adozione del figlio. La traccia sentimentale che pian piano emerge nella storia è forse l’ingrediente che meno mi è piaciuto perché è costretto a muoversi in un corridoio che ha una sola direzione, nel senso che è facile prevedere lo svolgimento dei fatti che accadranno per via del palese coinvolgimento di Aisha, è comunque una macchia di poco conto che sparisce nella brillantezza dell’insieme.

Ritornando a Diamantino vorrei spendere ancora qualche parola sul ribaltamento che ne è stato dato. Sia che lo si consideri il fantoccio di CR7 (al di là della somiglianza fisica è innegabile per una serie di gustosi dettagli che si lasciano allo spettatore) o una qualunque altra stella del calcio mondiale, il percorso emotivo-formativo pensato per lui diventa addirittura trasformativo, in un mandato di lesa maestà verso il Re del Football, verso una macchina dalle fibre muscolari in perenne tensione oculatamente esibite sui remunerativi social network, Abrantes & Schmidt scagliano il loro dardo provocatorio: in una società che fa assurgere a divinità un uomo che in fondo fa solo il suo mestiere, che ne esalta la virilità, la bellezza da divo, il piacere dello sfarzo, la tentacolarità commerciale, quest’uomo si ritira, da se stesso, dal suo corpo che diventa androgino, dal reale (l’epilogo non è del resto un sogno?), per essere finalmente libero e felice. D’altronde ogni favola che si rispetti ha una morale, solo che, essendo Diamantino un film intelligente, non ha la pretesa di impartire alcunché, c’è, sta a noi leggerci dentro.

Cari Gabriel e Daniel, mi avete fatto passare bene un’ora e trentasette minuti, vi mando la mia sincera gratitudine.

1 commento:

  1. gran film, quando ti sembra che prenda una direzione, il film di Diamantino fa una finta e riparte più bello che pria.

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