venerdì 17 settembre 2021

Old Is the New

È una produzione piccola piccola questo Old Is the New (2012) girata da due fratelli svizzeri di nome Dario e Mirko Bischofberger in un paesino del Salento, qui, nei territori tanto cari a Edoardo Winspeare fatti di tradizione, cultura, accoglienza, tamburelli, ulivi, vento, pietre bianche, anziani sulle sedie, dialetti vivi, feste locali e masserie decidono di introdurre Jessye, una giovane ragazza cinese arrivata in Italia per conto di un’agenzia turistica con lo scopo di trovare nuovi potenziali luoghi vacanzieri per i suoi connazionali. Lo affermo fin da subito, il film ha i tipici limiti di chi è costretto ad arrangiarsi come può senza avere dei budget sostanziosi da cui attingere, sicché, se il vostro occhio è esclusivamente orientato a lavori d’alto professionismo, allora questa non è roba che fa per voi, agli altri dico invece che se si ha la costanza di aggirare lo scoglio di una manifattura non da serie A, è possibile scovare un’idea che puntella l’opera ed anche delle riflessioni che da essa scaturiscono, il che, in fondo, non è male per un lavoro che sulla carta non riuscirebbe a guadagnarsi neanche due centesimi di credibilità.

L’area di manovra è quella capillarmente conosciuta del documentario che oscilla tra una ricerca del reale ed il suo inconciliabile opposto. I due elementi che formano l’impasto dicotomico non funzionano allo stesso modo, tutte le parti in cui si affaccia lo spauracchio della sceneggiatura, del copione, della recitazione, sono debolissime, gli attori improvvisati non risultano adeguati a sostenere dei dialoghi di fronte alla mdp (le apparizioni del seppur simpatico Rocco sono a dir poco arrugginite, il culmine – verso il basso – è la scenetta nel bar Manhattan con l’approccio alla vicina di tavolino) ed il risultato generale quando Old Is the New vuole essere un film-film è proprio modesto. Come accennavo prima però i fratelli Bischofberger cercano comunque di fare del loro meglio nel campo delle intenzioni e, se seguiamo l’ossimoro del titolo, capiamo a ciò che erano interessati, ovvero di offrire allo spettatore un ritaglio, una micro-cartina, un fazzoletto di contemporaneità inserendo un elemento estraneo all’interno di un contesto quasi arcaico, inalterato da lungo tempo. Il nuovo, sotto le spoglie di una curiosa cinesina, penetra nel vecchio, la crasi comporta delle conseguenze inevitabili: le due istanze fanno conoscenza reciproca, si piacciono, si seducono a vicenda. Jessye è un simbolo di alterità che scuote l’immobilismo del paese, non è un terremoto ma, come dicono i protagonisti, il mondo è mutato e, ad esempio, il bar Lux ha bisogno di una ristrutturazione.

Quindi abbiamo un delicato scontro/incontro che apre a qualche timida ponderazione oltre i confini della pellicola stessa. Non che il respiro sia universale e garantisca chissà quali illuminazioni, però si evade quel tanto che basta dalla storia inscenata per far trapelare qualche spiffero capace di mettere in moto il nostro cervello, o perlomeno quello del sottoscritto a cui non è dispiaciuta la sincerità che sottende il tutto, come non sono da deprezzare delle mini intuizioni, non a caso lontane dalla fiction, come le interviste architettate ai vari paesani che ci raccontano degli strascichi lasciati dalla dipartita di Jessye, oppure, andando proprio nel dettaglio, l’evocativa carrellata di primi piani che mischia gente locale ad altra di origine asiatica. Il finale riporta apparentemente la situazione ad un suo equilibrio perché sulle note di Modugno sia Jessye, alfiere di una lingua parlata da miliardi di persone, sia Roberto, l’ultimo ad esprimersi in griko, scompaiono nel nulla. Niente è cambiato allora? Per Franco, Salvatore, Antonio e Maria Assunta è plausibile che, al contrario, molto sia cambiato perché un appuntamento ravvicinato con ciò che è diverso, che è nuovo, non lascia mai come si era prima.

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