Mi è parso
un film leggermente diverso dai due precedenti di Marco Martins,
chiaro che São Jorge (2016) ha un alto tasso di paternità e
coerenza nei confronti del suo regista però se ritorniamo ad Alice
(2005) o a How to Draw a Perfect Circle (2009) ecco che
in questi due lungometraggi si può trovare una cosa che nell’opera
del 2016 non c’è o è sedata di non poco: la tensione, nel debutto
una tensione praticamente da thriller, nel titolo successivo una
trazione incestuosa smuoveva la faccenda, qui la situazione si
presenta più lineare, più subordinata ad una scrittura che non crea
particolari aspettative. La paternità succitata si rivela comunque
nella già conosciuta capacità che ha Martins di ritrarre in modo vero e
concreto il paesaggio metropolitano (viene sempre in mente Salaviza,
è possibile una reciproca influenza), il regista portoghese è uno
dei tanti auscultatori della realtà che popolano l’odierno cinema
autoriale, la garanzia che Martins ci ha dato finora è quella di uno
che sa fare il proprio mestiere senza voler puntare troppo in alto,
la concretezza è l’obiettivo principale ed in buona sostanza è
ciò a cui si arriva anche in Saint George,
un plauso in più lo si fa alla scelta dell’attore protagonista,
uno di quelli che si direbbero presi dalla strada (magari lo è, ma
Nuno Lopes ha comunque una lunga carriera alle spalle) e che
catapultati nel set cinematografico sortiscono una favorevole impressione, un uomo dall’aspetto
rude con però un buon cuore (sarà dovuto a ciò la santificazione
del titolo?).
Soprassedendo
alla continuità artistica di Martins, il film si espande da un
nucleo prelevato direttamente dal 2011, anno in cui la crisi
economica raggiunse il suo apice in Portogallo. Senza doverci
raffrontare – ahimè – con qualcosa in grado di
sorprenderci/toccarci/emozionarci, assistiamo ad una reazione a catena che partendo dalla chiusura di una fabbrica colpisce tanti piccoli
satelliti che le orbitavano attorno, da premesse del genere i drammi
che si innescano riguardano il compenetrarsi di diverse sfere, da
quelle economico-sociali a quelle famigliari-sentimentali ed il
quadro così composto non lascia traspirare troppa speranza per il
futuro (anche se il finale è a suo modo una piccola breccia di
speranza), l’angoscia del caso viene trasmessa da Martins con il
solito contegno portato avanti dall’inizio alla fine senza
particolari scossoni (appena sopra la media il fuori campo dello chef
suicida), con lui ritengo possa sempre valere la seguente regola:
poteva andarci meglio, sì, ma poteva anche andarci peggio.
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