venerdì 3 settembre 2021

Workingman’s Death

Documentarista e non solo (c’è a quanto pare dell’altro oltre Workingman’s Death [2005] e Whores’ Glory [2011), Michael Glawogger, deceduto nel 2014 in Liberia a causa della malaria, ci propone con questo film un reportage di inizio millennio sul concetto di lavoro manuale applicato in condizioni al limite dell’umano, però mi sento subito di dire che non si tratta di un titolo che vuole denunciare specifici ambiti professionali sparsi in giro per il mondo, l’obiettivo di Glawogger è più alto, rientra probabilmente in una riflessione dalla portata economico-filosofica che si riflette nella struttura stessa del film. L’inizio ci trasporta appunto nelle laide miniere del Donbass, un esempio che potremmo definire originario di “manovalanza” (i minatori e Glawogger stesso citano non senza ironia il buon vecchio Stachanov) ed il tutto finisce in una acciaieria dismessa in Germania riconvertita in polo artistico, alla luce di ciò è evidente che ci sia un percorso, forse trasformativo, forse no, l’impressione di chi scrive è che nemmeno il regista ha saputo definirne i contorni, ma di certo abbiamo un tragitto che partendo da una bellissima citazione di Faulkner rimbalza da una parte all’altra del globo quintuplicandosi in una visione etnografica, l’assalto è a tratti lodevole e la materia ripresa (in senso letterale: lo zolfo giallognolo, le interiora delle mucche scannate) deborda dallo schermo per la nostra gaiezza cinefila.

Affermerò una banalità: il segmento indonesiano e quello nigeriano sono di gran lunga le porzioni che hanno l’impatto più rimarchevole su di noi. È inevitabile del resto, in entrambi i casi Glawogger scova ambientazioni ed esseri umani all’interno di esse che non possono non attrarre la nostra attenzione, in più l’austriaco sembra trovare una fluidità nelle riprese e una ragione d’essere (di essere lì, di essere dentro quei posti per davvero e non come un ospite posticcio) tali da farci sgranare gli occhi, inutile sottolineare quanto sia “bello” seguire i lavoratori asiatici sulle vertiginose pendici del vulcano (a proposito: divertente il contrasto tra i turisti che si sollazzano vicino ai trasportatori di zolfo) oppure quanto sia tremendo venire catapultati dentro l’infernale mattanza di Port Harcourt, è una roba potente, sul serio, che merita di essere vis(su)ta, è una delle istantanee reali che più si potrebbero avvicinare all’idea di oltretomba: sangue, sgozzamenti, pneumatici, fumi luciferini, la puzza immonda, gli animali, i bambini. Grazie, Michael.

Il discorso cala un po’ a mio modo di vedere con i due segmenti successivi, molto banalmente: ciò che viene mostrato in Pakistan e Cina non ha la medesima forza attrattiva di quanto preceduto, è proprio una faccenda epidermica, di magnetismo estetico, le navi arrugginite del Belucistan o le fabbriche di Angang non provocano le medesime collisioni, ciò non toglie che comunque vi sia della coerenza dal punto di vista concettuale. Come concludere allora la disamina su Workingman’s Death? Sicuramente evidenziandone i pregi riconducibili ad una certa solidità generale che si rispecchia in una alta consapevolezza del proprio mestiere, ci sono sprazzi di bellezza e, ovviamente, anche qualche ruggine (perché utilizzare le musiche?), più che altro l’elaborazione dell’opera a distanza di sedici anni acuisce uno sgravio di energia rispetto all’origine, come se nel lasso di tempo Internet e i network televisivi riconvertiti in piattaforme streaming abbiano triturato la cifra fondante delle immagini e i loro significati soggiacenti (se presenti), tradotto: facciamo sempre più fatica a sorprenderci, a emozionarci, a innamorarci.

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