Diretto a sei mani, l’ucraina Eva Neymann risulta regista principale con Ludmila Kulchitskaya e Ivan Rutkovskyi a coadiuvarla, e tratto dal romanzo autobiografico di Fridrikh Gorenshteyn (sceneggiatore di Tarkovskij per Solaris, 1972), Dom s bashenkoy (2012) è un film che non poteva che generarsi da una schermata nera perché, sebbene lo scenario sia per forza di cose abbacinante vista la neve che imbianca l’ambiente, la storia è cupa e non ha riscatto alcuno, non riabilita, non dà possibilità ulteriori, ipotesi, speranze (se non oniriche nell’ultima, trasognante, carezza materna), è, semplicemente, il diario di un’assenza di calore proveniente dal suolo russo e zone limitrofe, e non ci si riferisce soltanto alle condizioni climatiche ma anche e soprattutto a quelle umane, all’indifferenza, al mors tua vita mea che ieraticamente impregna ogni cosa. Ecco, se c’è una lezione che abbiamo imparato dal cinema sovietico che racconta il proprio passato è proprio un colossale vuoto d’amore verso il prossimo, e spesso chi finisce risucchiato in questa cappa di gelida noncuranza sono i più deboli, ovvero i bambini. Certo, Neymann non è Klimov e non è nemmeno Kanevskij, però pur non avendo la stazza del “filmone” House with a Turret arriva a possedere un peso specifico, una cifra distintiva che illustra lo smarrimento di un bimbo in un mondo inospitale. Il film vuole portarci qui, e così succede. Il tono austero e distaccato non si lascia mai andare ad apici drammatici tanto che l’evento mortuario a metà proiezione si consuma più che altro negli occhi sgranati del piccolo invece che nei nostri.
Ma è la seconda parte ad essere più coraggiosa della prima che, in buona sostanza, aveva fini per lo più esplicativi. Quando il protagonista riesce a salire sul treno grazie all’aiuto del padre di famiglia (è l’unico barlume di umanità che si intravede), la narrazione evapora, non succede concretamente più nulla, oltre a constatare l’avversione della mamma nei confronti del bimbo e l’entrata /uscita in scena di ambigui viaggiatori (mi prendo ogni responsabilità: ho visionato una versione del film con dei sottotitoli a dir poco ballerini e potrebbe essere che non ci fosse nulla di ambiguo ma solo un’ottusa incomprensione del sottoscritto), il racconto si diluisce, si perde nell’ipnotico rumore del convoglio, nelle riprese esterne di ruderi che affiorano dalla neve, di alberi spogli, di uccelli neri appollaiati sui rami secchi, e tutto scorre, tutto va, non si sa bene in quale direzione ma va, mentre nei vagoni, al suono triste di una fisarmonica, le facce dei viandanti sono mappe di paure e vicissitudini profonde. È quintessenza di un cinema in b/n che può arrivare solo da quei territori e che manifestandosi riporta a noi l’eco di una galassia persa in un tempo che ci sembra il Medioevo ma che invece è stato giusto settanta anni fa.
Due extra di cui non sentivate la mancanza:
1) come sono giunto a Dom s bashenkoy? Parecchio tempo fa mi capitò di leggere il curriculum di Yekaterina Golubeva e mi appuntai questo titolo. Poi Katja, Katia, Katerina o qualunque fosse la traslitterazione corretta del suo nome, se ne andò per sempre nel 2011 e House with a Turret dovrebbe (uso il condizionale perché IMDb indica due successivi film usciti postumi che la vedono scritturata) essere la sua ultima apparizione. Quella carezza a fine film diventa quindi qualcosa di più.
2) la vicenda qui affrontata è una buona occasione per consigliare il saggio edito da Adelphi nel 2019 Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935). Una bella (si fa per dire) finestra storica su un fenomeno sociale che colpì la Russia negli anni che vedete tra parentesi in cui tra guerre e carestie si formò una nuova fascia (sub)sociale costituita da bande di bimbi soli al mondo che vagavano in una realtà di freddo indicibile e fame nera. Che cosa accadeva a questi poveri bambini ve lo spiega bene la penna di Luciano Mecacci.
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