Non approfondirò ulteriormente lo svilupparsi della vicenda perché è realmente una pagina cupa (una delle tante) della contemporaneità che, tra le altre cose, mette a nudo un vuoto giudiziario tristemente paragonabile a quelli del Belpaese, e non riporterò nemmeno l’evidenza, ossia che più i minuti si susseguono e più il regista è stato obbligato a ricalibrare la portata argomentativa, dal memoir al legal thriller fino all’ideale passaggio di consegne: dal tributo ad Andrew al tributo rivolto ai coniugi Bagby che, se davvero esiste il karma o qualcosa di simile, nelle loro prossime esistenze raccoglieranno i meritati frutti, quindi no, non ritengo sia utile sottolineare oltre quanto appena detto perché qui vogliamo parlare della materia prima che modella Dear Zachary e per farlo non ci si può esimire dal dire che nonostante gli intenti siano alti la realizzazione è proprio di livello dozzinale, la sua configurazione appare pensata per una messa in onda in qualche network televisivo piuttosto che per una proiezione in sala. Per il sottoscritto il modo in cui Kuenne fa progredire la narrazione attraverso oculati taglia e cuci, intensificazioni audio e video è equiparabile ad un’iniezione di doping, è inquinamento, è tossicità. Poi sono d’accordissimo sul fatto che il caso Bagby-Turner debba arrivare al vasto pubblico e va bene così, ma la mia coscienza critica non ha potuto fare a meno di mettervi in guardia...
Dafne - Federico Bondi
6 ore fa
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