Non approfondirò ulteriormente lo svilupparsi della vicenda perché è realmente una pagina cupa (una delle tante) della contemporaneità che, tra le altre cose, mette a nudo un vuoto giudiziario tristemente paragonabile a quelli del Belpaese, e non riporterò nemmeno l’evidenza, ossia che più i minuti si susseguono e più il regista è stato obbligato a ricalibrare la portata argomentativa, dal memoir al legal thriller fino all’ideale passaggio di consegne: dal tributo ad Andrew al tributo rivolto ai coniugi Bagby che, se davvero esiste il karma o qualcosa di simile, nelle loro prossime esistenze raccoglieranno i meritati frutti, quindi no, non ritengo sia utile sottolineare oltre quanto appena detto perché qui vogliamo parlare della materia prima che modella Dear Zachary e per farlo non ci si può esimire dal dire che nonostante gli intenti siano alti la realizzazione è proprio di livello dozzinale, la sua configurazione appare pensata per una messa in onda in qualche network televisivo piuttosto che per una proiezione in sala. Per il sottoscritto il modo in cui Kuenne fa progredire la narrazione attraverso oculati taglia e cuci, intensificazioni audio e video è equiparabile ad un’iniezione di doping, è inquinamento, è tossicità. Poi sono d’accordissimo sul fatto che il caso Bagby-Turner debba arrivare al vasto pubblico e va bene così, ma la mia coscienza critica non ha potuto fare a meno di mettervi in guardia...
mercoledì 4 agosto 2021
Dear Zachary: A Letter to a Son About His Father
È un’atroce
storia di cronaca nera americana che sta alla base di Dear
Zachary: A Letter to a Son About His Father (2008),
un documentario che, come da titolo, si propone sotto forma di
missiva visiva ad un destinatario che purtroppo non potrà mai
ricevere questa lunga raccolta di voci amiche dal cuore sanguinante,
c’è un’estesa commozione che fa da motore al film e che Kurt
Kuenne registra da una parte all’altra dell’Atlantico costruendo
un mosaico che, almeno inizialmente, sa di agiorafia. Andrew era una
persona eccezionale, era leale e brillante, di certo non era fatto
per Shirley: tre pistolettate ed il suo corpo prono sul terriccio di
un parco rimane l’ultima immagine che abbiamo di lui. Ed essendo
che Dear Zachary
è un’opera di memorie le immagini tratte da filmati d’archivio
riaccendono il ricordo dei parenti che si riversa nella nostra azione
di vedere-il-film, il rapporto che quindi si instaura in tali
esemplari cinematografici tra chi vede e chi è visto calamita rivoli
personali più o meno intensi che creano, o desidererebbero farlo,
delle protesi empatiche in cui scorre tutto l’amore, o l’odio,
per una o più vite che per motivi differenti non ci sono più. È il
cinema, e nient’altro. Anche se, nel nobile lavoro di Kuenne,
sentito, ammirevole, emozionante, sincero, di cinema inteso come
ricerca artistica non ce n’è proprio. Ciò che speravo era di
incappare in un oggetto discreto come Must Read After My Death (2007), premesse
abbastanza vicine, risultati finali divergenti.
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