In stretta sintesi il centro narrativo dell’opera è Keith, un ragazzo con un non specificato casino alle spalle che lo ha costretto agli arresti domiciliari per un tot di mesi, e intorno a lui orbitano altri piccoli pianeti con i quali è, ogni volta, prossimo al collasso. Porterfield pone il protagonista in una condizione di perenne instabilità che rimane nello schermo, del difficile rapporto col padre si registra poca roba capace di segnare l’attenzione, di quello con l’ex fidanzata ancora meno. Il girovagare di Keith, che in buona sostanza scandisce l’intero film, istituisce una composizione episodica dove si susseguono vari soggetti dall’esiguo spessore, tale frammentarietà non fa bene alla pellicola che spera di tenersi in sella mostrando le tentazioni in cui Keith ricade, suggerendo perciò nel contesto locale una strada fatta di perdizione ardua da abbandonare per chi non sa bene come tirare avanti. Gli scazzi con la banda del quartiere, la fugace relazione con una spogliarellista o l’incontro casuale con una studentessa di arte (segmento forzatino nelle premesse e nel breve sviluppo che non ho affatto gradito) insieme ad ulteriori frangenti di esigua entità, descriveranno anche la complessa realtà esteriore e interiore che Keith vive ma, appunto, non si va al di là della descrizione, il che fa spesso allontanare il sottoscritto da qualsiasi tipologia di visione, soprattutto per una così dove tutti i come e tutti i perché che mette in campo sono nel nostro database da molto, moltissimo tempo.
Sì, è un genocidio
8 ore fa
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