martedì 24 agosto 2021

Sollers Point

Matthew Porterfield non esce da Baltimora, quattro dei suoi sei lavori cinematografici sono ambientati lì e ben tre portano il nome di altrettante zone presenti in questa città del Maryland, c’è stato l’esordio Hamilton (2006) poi Putty Hill (2010) e infine Sollers Point (2017), quindi è quasi banale sottolineare che per il regista la geografia di riferimento non è propriamente un dettaglio, evidentemente da quelle parti la vita dei più giovani può incontrare pericolose deviazioni con tutti gli effetti scaturibili che potete immaginare, e Porterfield si trova a suo agio in una cornice del genere, la  panoramica che dà della provincia americana utilizza l’alfabeto del realismo per raccontare di droga, prostituzione, conflitti famigliari e orizzonti alquanto ridotti. È cinema indie americano in forma quintessenziale (lo certifica, in un certo senso, anche la presenza di una star come Jim Belushi), la tendenza è di ridurre piuttosto che implementare, di non dire troppo invece che di dire a vanvera. C’è però un problema a mio modo di vedere: che esattamente come per I Used to Be Darker (2013) il film sotto esame non ha tiro, è un riconosciuto compendio di situazioni e personaggi che non toccano, sono già scritti, già visti, e se ci mettiamo che anche il metodo trasmissivo non finirà negli annali di storia (almeno Putty Hill inglobava delle parentesi-interviste che rinfrescavano l’impianto generale), allora viene complicato consigliare Sollers Point.

In stretta sintesi il centro narrativo dell’opera è Keith, un ragazzo con un non specificato casino alle spalle che lo ha costretto agli arresti domiciliari per un tot di mesi, e intorno a lui orbitano altri piccoli pianeti con i quali è, ogni volta, prossimo al collasso. Porterfield pone il protagonista in una condizione di perenne instabilità che rimane nello schermo, del difficile rapporto col padre si registra poca roba capace di segnare l’attenzione, di quello con l’ex fidanzata ancora meno. Il girovagare di Keith, che in buona sostanza scandisce l’intero film, istituisce una composizione episodica dove si susseguono vari soggetti dall’esiguo spessore, tale frammentarietà non fa bene alla pellicola che spera di tenersi in sella mostrando le tentazioni in cui Keith ricade, suggerendo perciò nel contesto locale una strada fatta di perdizione ardua da abbandonare per chi non sa bene come tirare avanti. Gli scazzi con la banda del quartiere, la fugace relazione con una spogliarellista o l’incontro casuale con una studentessa di arte (segmento forzatino nelle premesse e nel breve sviluppo che non ho affatto gradito) insieme ad ulteriori frangenti di esigua entità, descriveranno anche la complessa realtà esteriore e interiore che Keith vive ma, appunto, non si va al di là della descrizione, il che fa spesso allontanare il sottoscritto da qualsiasi tipologia di visione, soprattutto per una così dove tutti i come e tutti i perché che mette in campo sono nel nostro database da molto, moltissimo tempo. 

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