giovedì 18 agosto 2016

Putty Hill

Putty Hill (2010), ovvero un altro esemplare di quel cinema indipendente americano che brancola nella propria provincia, il cosiddetto mumblecore: forse i veri Stati Uniti sono qui, nel declino umano nascosto sotto l’ingombrante think big, nelle storie di giovani smarriti tra gli agglomerati urbani ai bordi dei boschi, c’è sempre una geografia (questa volta nei dintorni di Baltimora) e ci sono spesso anime adolescenziali allo sbando, la ricetta di Matthew Porterfield (un occhio agli altri suoi lavori io ce lo butterei) si rifà a codesti ingredienti e come per Falkenberg Farewell (2006), film svedese ma tangente gli argomenti sopramenzionati, affronta il tema dell’addio all’interno di una comunità di persone, anzi lo fa dall’ interno in un atto di penetrazione, blitz silenzioso e per nulla rappresentativo, più un tentativo di assorbire la realtà senza artifici, a parte quello dell’intervista che espliciterò sotto. Ma se il film di Ganslandt si occupava essenzialmente di un possibile addio reversibile (nonostante, se ricordo bene, ci sia un evento importante ma non centrale come il suicidio di un ragazzo), quello di Porterfield sonda il terreno dopo la tragedia. Cody, un ragazzo di vent’anni, è morto per overdose: venite a vedere gli strascichi del dramma, gli effetti sugli affetti, il limbo eterno di questo bozzolo di vite.

Il metodo che Porterfield utilizza è incursivo, il racconto è un continuo singhiozzio di scene quotidiane che una volta riunite vanno a costituire uno strano flusso narrativo che nella mancanza trova essenza: la disorganicità si rivela organica, nell’unità risiede la molteplicità perché più il regista si inoltra nelle vite di queste persone e più gemmano dei fiori appassiti, si tratta di storie nella storia (quella del tatuatore e della figlia o dell’ex galeotto) che diventano elementi di un paesaggio generale dove la vicenda di Cody non è altro che una componente amara come le altre. Porterfield non si ferma alla registrazione del reale, con un movimento intensificante accede alla diegesi in prima persona contaminando il registro con delle vere e proprie interviste ai vari personaggi. È un’azione sfrontata che rompe l’etichetta e, almeno sul piano teorico, fa acquistare punti al film. Su quello pratico ci sarebbe probabilmente da ridire perché alla lunga i dialoghi diventano corpi leggermente estranei dal resto trasformandosi in piccole forzature disseminate lungo il girato (anche a causa di domande poste dall’invisibile interlocutore che sviano dal macro-argomento Cody, del tipo: “cosa ne pensi della morte?”). Comunque sia Putty Hill, al pari di tutti gli altri film low-budget ad esso equiparabili, è una piccola manifestazione di cinema a cui consiglierei di andare incontro, per il tatto, per la sua dignitosa statura, per il suo mostrarci il volto nascosto dell’America.

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