giovedì 11 agosto 2016

Tokyo Tribe

Nell’anno precedente all’incredibile esplosione produttiva che vedrà il parto di ben sei film nel giro di 365 giorni (uno di essi sarà destinato alla tv), meglio ancora del 2005 quando furono quattro, Sion Sono si “accontenta” di girare soltanto Tokyo Tribe (2014), un’altra, l’ennesima, follia del regista giapponese che, correggetemi se sbaglio, affronta uno dei pochi, se non proprio l’unico, genere che ancora non aveva trattato: il musical. Come è intuibile però l’approccio non è esattamente convenzionale per cui tale etichetta viene risucchiata nel vortice massimalista di Sono che, è scontato dirlo, infila dentro due ore di proiezione una bomba nipponica contenente una miriade di riferimenti (non facili da cogliere vista l’ignoranza nei confronti della cultura odierna in Giappone), di citazioni (mi sbaglierò, ma il formidabile ragazzino che libera le donzelle prigioniere del boss Buppa assomiglia fisicamente e nel gesto di grattarsi il naso con l’indice ad L di Death Note, e anche il suo essere ghiotto di mele riporta al fortunato manga di Ōba), di cinefilie (dalle macro: i generi a cui si rifà: pinku eiga e chambara, yakuza eiga e wuxia, alle micro: la stoccata verso Tarantino e i suoi fan sul costume di Bruce Lee). Purtroppo si finisce con l’essere ripetitivi, quello di Sono è ormai un cinema ampiamente riconoscibile (anche solo dagli stacchi di scena) che punta dritto al mix, non esistono compartimenti stagni per lui, tutto si può fondere in una totalità orgiastica senza limiti, a parte quelli dello spettatore: qui sta a noi decidere se accettare ancora una volta questa investente molteplicità, forse con Tokyo Tribe più di un qualcosa non fila in modo esemplare, ma lo vedremo.

Prima di tutto, mi preme sottolineare uno sfoggio di tecnica da parte di Sono che probabilmente non ci aveva ancora offerto nel corso della sua carriera, il film infatti è per buona parte un continuo strutturarsi di piano sequenza in piano sequenza dove l’autore gestisce una considerevole mole di attori sulla scena. È un dato non da poco visto che la saturazione umana del quadro visivo avrà costretto Sono alla creazione di uno storyboard molto complesso, sicché una coordinazione di così tante persone davanti alla mdp riprese in un flusso senza tagli gioca a suo favore anche perché nel cinema contemporaneo è davvero raro assistere a scene di massa. Un altro plauso è indirizzato all’edificazione del set che è vero che riporta ad un’idea di Tokyo, e quindi neon, colori sfavillanti, traffico ed esseri alienati, ma che al contempo sa suggerire un certo tasso di finzione capace di farci accettare di buon grado il contesto fittizio, la baracconata, l’artificiosità al servizio dell’estetica, per fare ciò Sono si è servito di Yuji Hayashida, già collaboratore di Miike e Ishii, e di un collettivo di studenti che lo hanno aiutato a mettere in piedi una Tokyo gemella dal sapore pop-apocalittico. È comunque l’aspetto musicale a prendersi giustamente il palcoscenico e diciamo che Sono non ha fatto altro che trasportare il suo eruttante modus operandi anche in questo settore, e così il beat, lanciato da un’arzilla dj, ci accompagna per l’intera durata dell’opera, piaccia o meno Tokyo Tribe è questo: un lungo videoclip che puntando il compasso su una faida a suon di barre e assalti all’arma bianca traccia un cerchio ampio come è l’universo di Sono.

Però, cercando di asciugare il film dalla sua peculiare natura rapperiana, originale e divertente quanto si vuole, il nucleo di Tokyo Tribe è una storia di lotte interne fra bande rionali che si esplicitano in una continua battaglia tra i clan. Le scene di lotta, pressoché onnipresenti, paiono una copia presa ed incollata dalla pellicola appena precedente Why Don’t You Play in Hell? (2013) dove nuovamente avevamo gangster fumettistici e torrenti di sangue, tutte robe che comunque erano già presenti, sebbene in forma più embrionale, in Love Exposure (2008). Quello che mi sento di dire è che centoventi minuti di cazzotti e fontane emoglobiniche deprezzano la veste innovante (almeno nell’ottica sononiana) che il film presenta. Perché è chiaro che a questo punto a Sono non interessa più fornire dei messaggi, dei significati (il primo contro-esempio che mi viene è Noriko’s Dinner Table, 2005), quello che inscena non ha niente dietro se non il puro piacere, appunto, di inscenare, e in suddetta traiettoria non è affatto un caso che il finale sia un banalotto annuncio di pacificazione con allegro coro di gruppo conclusivo, d’altronde da vuote premesse non poteva che finire così. Direi che la piega presa da Sono con Tokyo Tribe non rientra nei gusti di chi scrive e presumo nemmeno nei vostri, vedremo cosa ci riserverà il sestetto del 2015.

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