Era pronosticabile che
giunto ad un punto artisticamente espanso oltre i limiti come Hors Satan (2011), il cinema di Dumont potesse subire un rinculo,
Camille Claudel 1915 (2013) è una scossa di
assestamento, uno sguardo più vicino agli stilemi classici, un
film forse più accessibile in confronto al mistico curriculum
del regista nato a Bailleul. È
un’opera orientata ad un’attorialità e ad una messa in
scena che fino ad oggi non avevamo mai visto, d’altronde è
la prima collaborazione tra Dumont e un’étoile
come Juliette Binoche la quale, a differenza dei suoi colleghi non
professionisti che l’hanno preceduta, deve mettere davanti alla mdp
tutto il repertorio di cui è dotata oltre che una certa
loquacità (i dialoghi/monologhi col direttore e con il
fratello) mai udita prima. E poi la latitanza della Natura, cuore
immoto dell’intera filmografia, qui ridotta nell’apparizione
scheletrica di un albero avvizzito, e l’opposta costante presenza
degli interni dell’ospedale psichiatrico, anonimi e plumbei. Un
punto di vista che quasi si normalizza soffoca a mio avviso quella
potenza estatica che ben abbiamo saputo adorare nel corso degli anni,
il plus dumontiano è
sempre stato quello di riuscire a comunicare un investente flusso
narrativo/emotivo/sensitivo facendosi carico lui stesso di ogni
azione ostensiva, i personaggi nei film del francese, in sostanza,
non hanno mai dovuto fare niente, bastava un semplice primo piano a
far esplodere il nostro semantic-detector. Di contro, se all’interno
del film vi è, ad esempio, un’interpretazione così
forte come la Binoche ha dimostrato, il vigore primigenio della
visione (del già citato Hors Satan,
ma anche di Flanders [2006]) non (ci fa) (imm)emerge(re).
Dal punto di vista
tematico, invece, Dumont rimane fedele alla propria linea. Si è
ripetuto innumerevoli volte che l’argomento presente più
d’ogni altro nella sua carriera è stato la religione. Lo
scarto netto tra un approccio ordinario ed uno terroristico che gli
si confà perfettamente ha permesso di creare voragini dentro
il senso di concetti come Dio, Miracolo, Fede, Sacrificio, Diavolo,
Visione, e sempre tramite figure giustamente definite cristologiche, un team che si arricchisce della presenza di Camille:
la prima inquadratura vede la donna ripresa di spalle, benvenuti nel
suo mondo: provate a soffrire come sta soffrendo lei. In assenza
dell’ispirazione paesaggistica, il regista punta il mirino sul
paesaggio corporale della Binoche, sfigurata ed emaciata, nel bel
mezzo della sua via crucis. La centralità Binoche/Claudel,
rimarcata dalla locandina, si evince anche dal fatto che la
protagonista, circondata da infermi mentali dai tratti lombrosiani,
deformi, quando invece di solito le figure lombrosiane, ad esclusione
di Hadewijch (2009), giustappunto un’altra storia con
intenti biografici, erano gli attori principali, spicca per lucidità
e regolarità, anche anatomica, al cospetto della follia
circostante. Alla dimensione solitaria si subordina la questione
religiosa, per la prima volta, forse, questo non è più
un Dumont che svela l’insondabile lasciandoci attoniti, piuttosto
un Dumont che addita la sterilità della fede: uno dei pazienti
domanda ad una suora dove sia Dio, il fratello Paul, putrida
declinazione dell’indrottinato: il fanatico-egotico, sproloquia
insensatamente verso il Signore. E Camille, una versione muliebre del
Pharaon de L’umanità (1999), che si affida
ostinatamente alla preghiera. Noi sappiamo che non c’è
speranza lì dentro, ma lei no, ed è per questo che per
chi scrive Camille Claudel 1915 ha una portata più
accusatoria della fede che esplorativa.
In questi termini è
inevitabile che lo spettro analitico non raggiunga profondità
così inesplorate, parimenti l’inesausta ricerca di Bruno
Dumont della religiosità attraverso il cinema può anche
contemplare esemplari meno radicali. E comunque, a prescindere dalla
minor estasi, nel finale, con l’immagine frontale di Camille per la
prima volta rischiarata da un timido sole, presenziamo alla
plausibile nonché unica stimolazione del tessuto percettivo,
quel raggio di luce sembra essere il solo segno di pietas
dell’intero film, la cifra del divario incolmabile tra chi sta in
cielo e chi sta in terra.
La cosa inquietante di questo film è che precede una serie TV - IMHO - inguardabile, ed è sconcertante perché è come se Dumont, raggiunto il picco di cui parli, avesse radicalmente cambiato cinema, sì, ma non solo formalmente: il cambio, secondo me, è considerevole specie dal punto di vista del pubblico, e la sensazione è che Dumont abbia voluto abbandonare un certo cinema per lanciarsi in un altro che, forte dei capolavori precedenti, gli possa fruttare una più ampia visibilità. Naturalmente, bisognerà aspettare il prossimo film per poter giungere a delle conclusioni, epperò a me puzza un po' questa virata così plateale... ma sarà che io sono una persona malfidente e cattiva :p
RispondiEliminaA distanza di qualche mese dalla visione devo dire che mi è rimasto ben poco di questo film. Mi pare il punto più basso della carriera di Dumont, oggi mi pare una forzatura il tentativo di far entrare il proprio cinema nella storia di questa tizia. Magari gli è stato commissionato, d'altronde la presenza della Binoche potrebbe far pensare che sia così, chissà. P'tit Quinquin non mi è dispiaciuto troppo, l'ho visto nel torrido agosto di questa estate e forse l'afa mi ha fatto prendere un abbaglio ma in generale mi ha abbastanza soddisfatto.
RispondiElimina