Dumont, fortissimamente Dumont.
Ci sono verità profonde dentro Flandres (2006, e i distributori internazionali potevano anche lasciare il titolo in francese…), verità che passano sottotraccia nella naturalezza del tutto, il cinema di Bruno Dumont è cinema senza artefatti: è puro, è virgineo, è originario.
Anche questa volta il quadro diegetico, soprattutto quando viene ripresa la provincia francese, è scarno, eppure, perdonatemi il gioco di parole, la carne al fuoco è sempre tanta, forse anche sempre la stessa, ma ad ogni modo necessaria per soddisfare la nostra fame cinefila.
Ci sono suggestioni epifaniche: l’ambientazione che riporta il regista laddove non se n’era mai andato, nemmeno durante la trasferta americana di Twentynine Palms (2003), gli attori non protagonisti i cui primi piani devastano lo schermo, gli amplessi bestiali, stinti, gli stupri, la violenza, l’ectoplasma dell’amore. Tutto ciò affiora nell’implacabile spartito registico che (s)concerta con immane pragmatismo. L’insistenza sui particolari anatomici, sul dolore corporeo/ mentale e sulle nevrotiche azioni sessuali, sfugge ad una qualunque accusa di esibizionismo se bilanciata alle necessarie ellissi temporali (i prigionieri un attimo dopo liberi) rintracciabili anche nelle opere precedenti.
Quello di Dumont è un grido che lacera il genere umano.
I due mondi rappresentati mai così agli antipodi (il verde rigoglioso della campagna, l’aridità della zona di guerra) hanno invece punti in comune riconducibili alle condotte dei personaggi, ce lo mostra chiaramente la scena dello stupro ai danni di una ragazza del posto dove il soldato Demester rivede nella sopraffazione della donna i suoi amplessi spenti con Barbe. In guerra le persone muoiono decapitate, trafitte da pallottole o falcidiate dalle bombe, nelle Fiandre, invece, sono morte dentro. Un ponte tra questi due mondi ci viene proposto attraverso la figura di Barbe, ancora una donna al pari del film precedente, la quale tramite un’identificazione con la terra come alcuni critici hanno sottolineato, riesce a vedere anche ciò che le sarebbe precluso. Barbe è una puttana santa, l’altra faccia della moneta-Pharaon de L’umanità (1999), lui era sollevato dalla terra, lei quasi sepolta al suo interno, eppure entrambi alla fine appaiono vittime allo stesso modo: sono martiri, allo stesso modo.
Dumont, spietatamente Dumont.
Ci sono verità profonde dentro Flandres (2006, e i distributori internazionali potevano anche lasciare il titolo in francese…), verità che passano sottotraccia nella naturalezza del tutto, il cinema di Bruno Dumont è cinema senza artefatti: è puro, è virgineo, è originario.
Anche questa volta il quadro diegetico, soprattutto quando viene ripresa la provincia francese, è scarno, eppure, perdonatemi il gioco di parole, la carne al fuoco è sempre tanta, forse anche sempre la stessa, ma ad ogni modo necessaria per soddisfare la nostra fame cinefila.
Ci sono suggestioni epifaniche: l’ambientazione che riporta il regista laddove non se n’era mai andato, nemmeno durante la trasferta americana di Twentynine Palms (2003), gli attori non protagonisti i cui primi piani devastano lo schermo, gli amplessi bestiali, stinti, gli stupri, la violenza, l’ectoplasma dell’amore. Tutto ciò affiora nell’implacabile spartito registico che (s)concerta con immane pragmatismo. L’insistenza sui particolari anatomici, sul dolore corporeo/ mentale e sulle nevrotiche azioni sessuali, sfugge ad una qualunque accusa di esibizionismo se bilanciata alle necessarie ellissi temporali (i prigionieri un attimo dopo liberi) rintracciabili anche nelle opere precedenti.
Quello di Dumont è un grido che lacera il genere umano.
I due mondi rappresentati mai così agli antipodi (il verde rigoglioso della campagna, l’aridità della zona di guerra) hanno invece punti in comune riconducibili alle condotte dei personaggi, ce lo mostra chiaramente la scena dello stupro ai danni di una ragazza del posto dove il soldato Demester rivede nella sopraffazione della donna i suoi amplessi spenti con Barbe. In guerra le persone muoiono decapitate, trafitte da pallottole o falcidiate dalle bombe, nelle Fiandre, invece, sono morte dentro. Un ponte tra questi due mondi ci viene proposto attraverso la figura di Barbe, ancora una donna al pari del film precedente, la quale tramite un’identificazione con la terra come alcuni critici hanno sottolineato, riesce a vedere anche ciò che le sarebbe precluso. Barbe è una puttana santa, l’altra faccia della moneta-Pharaon de L’umanità (1999), lui era sollevato dalla terra, lei quasi sepolta al suo interno, eppure entrambi alla fine appaiono vittime allo stesso modo: sono martiri, allo stesso modo.
Dumont, spietatamente Dumont.
Non ho mai visto niente di Dumont, benchè ho sentito gente dire in giro che Twentynine Palms sia un capolavoro. Alla fine, in soldoni, chi abbiamo di fronte? Un Haneke più spietato e animale?
RispondiEliminaAbbiamo di fronte un Regista. Se viene paragonato ad Haneke qualcosa in comune lo si potrebbe anche trovare, però Dumont è altra materia a mio modo di vedere. La difficoltà nel seguire le sue opere sta nel rapportarsi con un cinema che lavora spossantemente di sottrazione, togliendo togliendo e togliendo alla fine resta un nocciolo, un senso, forse IL senso, ad ogni modo sempre arduo da digerire.
RispondiElimina29 palms un capolavoro? Non credo, ma resta un film coraggioso vicino alla spocchia e ancora più vicino all'autorialità.
davvero un grande ..sei sempre bravissimo..ciao
RispondiEliminaah sono brazzz ho problemi con l'account
devo vederlo assolutamente!
RispondiEliminaHo apprezzato abbastanza questo film di Dumont. Diciamo che in sostanza contiene molti ingredienti formali e contenutistici delle opere successive. Si, è sempre "la stessa carne messa a fuoco".
RispondiEliminaEppure non è comunque all'altezza di Hadewijch e Hors Satan. Un motivo c'è e credo sia risconstrabile in un'ambientazione piuttosto prevedibile della guerra, che non restituisce nulla di nuovo ogli occhi dello spettatore con l'aggiunta di personaggi nettamente sgradevoli anche nella grettezza... è vero che questa grettezza rende "originale" il proseguirsi del finale purificatorio, eppure ci si chiede se questo in fondo non sia stato un semplice espediente per permettere al Regista di arrivare al suo scopo. In "Flanders" prevale un forte senso di ricerca formale più che una necessità formale. I pesonaggi sembrano essere più al servizio di Dumont che al servizio delle sensazioni.
Indiscutibile la grandezza degli ultimi minuti, certe inquadrature come quella in cui la protagonista è in punta di piedi verso il cielo, per consegnarsi al Completamente Altro, è qualcosa di estremamente sconvolgente e indicibile. Come anche questa improvvisa forza catartica che sprigiona il perdono.
Sono talmente di corsa che non posso che limitarmi a dire: Dumont è uno di quei registi che più fanno film e più mi sembra che l'intera filmografia non sia altro che un'unica, grande, opera. Per cui qualcosa può piacere meno di qualcos'altro ma è nel discorso iniziato con L'età inquieta e poi proseguito con tutto il resto che Dumont esplica un pensiero altissimo e costitutivo per il cinema odierno.
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