Tutto il mondo è paese. Erano pochi giorni fa che vi parlavo tramite Pleasure Factory (2007) della prostituzione singaporiana e di tutte le derive che tale argomento comporta, oggi rimaniamo sempre in oriente ma ci spostiamo più a nord, precisamente a Hong Kong, dove ritroviamo alla regia una vecchia e fugace conoscenza di oltre il fondo: Herman Yau, autore di uno dei film che IMDb mette fra i 10 più “malati” di sempre (esagerando, si tratta in ogni caso di un CAT III), ovvero The Untold Story (1993), film(etto) esploitativo che denunciava limiti economici, estetici e narrativi dal primo all’ultimo minuto. Quattordici anni dopo Yau con più esperienza e una marea di pellicole alle spalle firma un’opera dignitosa, piccola, anche imperfetta, ma abbastanza godibile.
Nello specifico se si prende a paragone il film di Uekrongtham si notano subito due elementi concordanti. Il primo è ovviamente la materia trattata, la schiavitù sessuale, il secondo è l’anno perché entrambi i film sono stati prodotti nel 2007 e perciò ci troviamo di fronte a due sguardi contemporanei su due realtà geografiche differenti.
Ma lo strappo, netto, evidente, avviene con il modo in cui Yau maneggia il delicato contenuto del suo film; se il regista thailandese aveva velleità autoriali con mute sequenze e ibridazione di generi, quello hongkonghese si mantiene su livelli di cinema molto più standard con un registro ben lontano dal realismo per dar vita ad una storia fortemente romanzata.
Il centro dell’attenzione è posto su un lussuoso bordello, che se non ho capito male annovera al suo interno anche gigolò maschili, dove si intrecciano le vite di chi vi lavora. Superando la difficoltà di doversi orientare fra i graziosissimi ma tutti uguali musi gialli delle ragazze, veniamo a conoscenza di stralci delle loro esistenze in un arco temporale di 10 giorni: i problemi sentimentali e famigliari di una delle entreneuse, la poca voglia di lavorare di una giovane prostituta e i suoi guai con la droga, le difficoltà di un transessuale.
A dirla tutta, sebbene il taglio sfugga ad un’aderenza al reale, i temi affrontati da Yau sono socialmente urgenti poiché, ad esempio, la malattia in generale (AIDS, sifilide, ecc.) aleggia in maniera sinistra sulle condotte dei personaggi. Vieppiù che la co-sceneggiatrice Yee Shan Yeung ha scritto un libro che ha lo stesso nome del film, e all’interno di esso è possibile rintracciare la figura di una convinta femminista che si batte, anche giustamente, a favore dei diritti di quelle che lei chiama sex-workers e non sex-toy come la società preferisce apostrofare. A dispetto di tali componenti però, Whispers and Moans mantiene un tono leggerino, quasi televisivo, che non ha il coraggio né di osare (un film sulla prostituzione e nemmeno una scena di sesso?) e né di denunciare (fare la vita sembra per alcune delle giovani quasi un lavoro come un altro da come ne parlano), volendo poi strafare con il violento finale.
Niente di che, ma è un che che si lascia guardare. Yau appena un anno dopo girerà una sorta di sequel intitolato True Women for Sale (2008) che qui non sarà commentato, neanche quo e qua.
Nello specifico se si prende a paragone il film di Uekrongtham si notano subito due elementi concordanti. Il primo è ovviamente la materia trattata, la schiavitù sessuale, il secondo è l’anno perché entrambi i film sono stati prodotti nel 2007 e perciò ci troviamo di fronte a due sguardi contemporanei su due realtà geografiche differenti.
Ma lo strappo, netto, evidente, avviene con il modo in cui Yau maneggia il delicato contenuto del suo film; se il regista thailandese aveva velleità autoriali con mute sequenze e ibridazione di generi, quello hongkonghese si mantiene su livelli di cinema molto più standard con un registro ben lontano dal realismo per dar vita ad una storia fortemente romanzata.
Il centro dell’attenzione è posto su un lussuoso bordello, che se non ho capito male annovera al suo interno anche gigolò maschili, dove si intrecciano le vite di chi vi lavora. Superando la difficoltà di doversi orientare fra i graziosissimi ma tutti uguali musi gialli delle ragazze, veniamo a conoscenza di stralci delle loro esistenze in un arco temporale di 10 giorni: i problemi sentimentali e famigliari di una delle entreneuse, la poca voglia di lavorare di una giovane prostituta e i suoi guai con la droga, le difficoltà di un transessuale.
A dirla tutta, sebbene il taglio sfugga ad un’aderenza al reale, i temi affrontati da Yau sono socialmente urgenti poiché, ad esempio, la malattia in generale (AIDS, sifilide, ecc.) aleggia in maniera sinistra sulle condotte dei personaggi. Vieppiù che la co-sceneggiatrice Yee Shan Yeung ha scritto un libro che ha lo stesso nome del film, e all’interno di esso è possibile rintracciare la figura di una convinta femminista che si batte, anche giustamente, a favore dei diritti di quelle che lei chiama sex-workers e non sex-toy come la società preferisce apostrofare. A dispetto di tali componenti però, Whispers and Moans mantiene un tono leggerino, quasi televisivo, che non ha il coraggio né di osare (un film sulla prostituzione e nemmeno una scena di sesso?) e né di denunciare (fare la vita sembra per alcune delle giovani quasi un lavoro come un altro da come ne parlano), volendo poi strafare con il violento finale.
Niente di che, ma è un che che si lascia guardare. Yau appena un anno dopo girerà una sorta di sequel intitolato True Women for Sale (2008) che qui non sarà commentato, neanche quo e qua.
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