Cambia lo
scenario, cambia in parte l’approccio alla materia cinema rispetto
a II (2014), ma per Efthimis
Kosemund Sanidis la cripticità rimane un credo a cui attenersi per
modellare la propria opera, difatti anche di Astrometal
(2017), detta papale papale, si comprende poco, quel poco è dato
dagli elementi più in vista, ovvero che il film è contenuto nello
spazio temporale di una notte dove due ragazzi e una ragazza si
recano in una discoteca per passare la serata. Questo è quanto
vediamo che però non è abbastanza, perché il regista, anche alla
luce del corto precedente, è uno che invita ad andare oltre la
patina delle immagini e al tentativo di dare loro una
consequenzialità logica, pur non avendo un metodo contemplativo
integralista (soprattutto Astrometal)
la sua visione delle cose si mette più a disposizione del nostro
sentire che del nostro osservare, qui abbiamo un oggetto che punta ad
un’atmosfera e non ad un racconto, che si prefigge di evocare certi
stati d’animo, certe sottili inquietudini, che flirta con una
dimensione onirica (la catalessi del finale, loro dormono in macchina
e la città si risveglia), mai netta né totalmente da escludere.
Per
giungere a tali suggestioni EKS si avvale di strumenti piuttosto
efficaci che gettano il corto nell’inconsueto, prova ne è la
scelta di svuotare il club di persone (perché, guardando bottiglie e
bicchieri, qualcuno, prima, lì c’è stato) per riempirlo con un
disturbante frastuono cacofonico, come se le casse del locale fossero
state sfondate, è una trovata weird che si erge un po’ a simbolo
del film, sebbene comunque aleggino altri squarci enigmatici, si noti
il momento migliore, ossia l’incursione lynchiana nella stanza buia
compiuta dal ragazzo rasato che, stalkerato da Sanidis, si volta
inaspettatamente verso la camera, verso di noi, oppure la scena
appena susseguente dentro ad uno spogliatoio che pare slegata dal
resto, forse è avvenuta prima, o forse dopo. Sul rapporto che c’è
tra i tre non viene esplicitato nulla, si intrasente però un’ambigua
energia intorno al “terzo incomodo”, ed è una sensazione che
diventa senso, uno dei tanti possibili o impossibili, d’altronde la
direzione da fornire a questo senso
spetta a chi guarda.
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