
Die
Kinder der Toten (2019), uno
degli oggetti più strambi (ma anche più vivi) che vi possano
capitare tra le mani oggidì, è un film tratto dal libro omonimo
recante la firma del Premio Nobel Elfriede Jelinek (colei che ispirò
Haneke per La pianista,
2001), ma la cosa buffa, e che mette già in guardia dall’inizio
sul tipo di progetto, riguarda il fatto che la coppia registica, gli
americani Kelly Copper e Pavol Liska, il romanzo in questione non lo
hanno mai letto. Sotto l’ala protettiva di un sempre demoniaco
Ulrich Seidl qui nelle vesti di produttore, il duo costruisce un
apparato formale che ricalca i protocolli del muto, sicché non vi
sono conversazioni parlate bensì dialoghi scritti sulle schermate nere che fanno
da intermittenze all’interno del girato, di contro viene effettuata
una massiccia sonorizzazione che in alcuni casi esacerba l’audio
(penso a quando in scena c’è del cibo), mentre il comparto visivo
è costituito solo da immagini in super 8, quelle dall’aspetto
amatoriale, “brutte”, rovinate, un flusso sporco che però, nella
sua repulsione, sa essere efficace. Ma che ci racconta di bello
codesta pellicola? Diciamo che innanzitutto si ha la possibilità di
vedere un tipico paesaggio alpino come non l’abbiamo mai visto, tra
birra, salsicce e jodel striscia qualcosa di molto sordido, azzardo
ripugnante, solo che, almeno fino all’incidente, non vi è mai
nulla di particolarmente esplicito, eppure vuoi per l’impiego di
attori non professionisti dalla fisionomia perfettamente seidliana,
vuoi per un torbidume che affiora (i vecchietti che limonano duro),
non si assiste con tranquillità alla proiezione, traspira del
sulfureo, essuda del siero nero, sembra, impressione squisitamente
soggettiva, di guardare un Benny Hill Show ambientato su una sponda
dello Stige. Nonostante appaia arruffone, sconnesso e pasticciato in
Die Kinder der Toten
il sottoscritto ha sentito un ribollio avvertito anche altrove,
magari in esemplari maggiormente raffinati (vedi – per sparare alto
– Post Tenebras Lux
[2012] o Fausto
[2018]) che comunque condividono un magnetico richiamo all’oscurità,
del resto, come dice la pagina IMDb, non è un dettaglio se per le
riprese sono stati impiegati 666 rulli così come 666 sono le pagine
che compongono il volume della Jelinek...
In
un certo senso l’opera sotto esame è l’esasperazione trasportata
nell’eccesso di un documentario realista quale è The
Border Fence (2018). È vero che
il tema dei migranti per Copper e Liska non è dominante sebbene
inserito attraverso un gioco di parole (Stiria / Siria), però a mio
avviso il discorso sa essere cavo ed ampio e si inserisce nella
direzione di quel cinema austriaco che negli anni ha indagato il
marcio appiccicato alle fondamenta del Paese. Di base è una faccenda
di nazionalismi mai sopiti e dall’agghiacciante retaggio che dentro
la narrazione si riflette sottotraccia nel rapporto tra genitori e
figli, tra passato e presente, infatti il centro, ok, parecchio
traballante ma pur sempre centro è, si colloca nello scontro tra una
torva e anziana madre con l’attempata figlia che nel suo bislacco
percorso tra la vita e la morte condurrà tutto (anche il film
stesso) ad un’autodistruzione senza ritorno. Appunto, la morte:
altro topic che arriva dritto dritto, è una puzza, fortissima,
mascherata dal grottesco che, quando si scosta, offre quel che c’è
sotto i celeberrimi sepolcri imbiancati, il lutto, la tragedia, sono
esibizioni con il relativo pubblico, alcol, suicidi incrociati,
omicidi efferati, grandi abbuffate, al depliant di mostruosità umane
non manca praticamente niente. E poi, per aggiungere un ulteriore
carico, si sconfina in un metacinema dalle tinte horrorifiche, e non
si tratta di una noiosa digressione teoretica ma di una scoppiettante
apocalisse terrena che generandosi da una sala cinematografica
(grande l’idea di un “cinema del rimpianto”) si riversa nel
contesto filmico con potenza carnevalesca e chiassosa, una specie di
giudizio universale di anderssoniana memoria ma decisamente più
pimpante. Il laccio tra settima arte, dimensione funebre e realtà
politica è un cappio che stringe al collo, e siccome tale nodo
scorsoio proviene da un film così grezzo e sbilenco l’apprezzamento
raddoppia, o addirittura triplica.
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