sabato 20 novembre 2021

Die Kinder der Toten

Die Kinder der Toten (2019), uno degli oggetti più strambi (ma anche più vivi) che vi possano capitare tra le mani oggidì, è un film tratto dal libro omonimo recante la firma del Premio Nobel Elfriede Jelinek (colei che ispirò Haneke per La pianista, 2001), ma la cosa buffa, e che mette già in guardia dall’inizio sul tipo di progetto, riguarda il fatto che la coppia registica, gli americani Kelly Copper e Pavol Liska, il romanzo in questione non lo hanno mai letto. Sotto l’ala protettiva di un sempre demoniaco Ulrich Seidl qui nelle vesti di produttore, il duo costruisce un apparato formale che ricalca i protocolli del muto, sicché non vi sono conversazioni parlate bensì dialoghi scritti sulle schermate nere che fanno da intermittenze all’interno del girato, di contro viene effettuata una massiccia sonorizzazione che in alcuni casi esacerba l’audio (penso a quando in scena c’è del cibo), mentre il comparto visivo è costituito solo da immagini in super 8, quelle dall’aspetto amatoriale, “brutte”, rovinate, un flusso sporco che però, nella sua repulsione, sa essere efficace. Ma che ci racconta di bello codesta pellicola? Diciamo che innanzitutto si ha la possibilità di vedere un tipico paesaggio alpino come non l’abbiamo mai visto, tra birra, salsicce e jodel striscia qualcosa di molto sordido, azzardo ripugnante, solo che, almeno fino all’incidente, non vi è mai nulla di particolarmente esplicito, eppure vuoi per l’impiego di attori non professionisti dalla fisionomia perfettamente seidliana, vuoi per un torbidume che affiora (i vecchietti che limonano duro), non si assiste con tranquillità alla proiezione, traspira del sulfureo, essuda del siero nero, sembra, impressione squisitamente soggettiva, di guardare un Benny Hill Show ambientato su una sponda dello Stige. Nonostante appaia arruffone, sconnesso e pasticciato in Die Kinder der Toten il sottoscritto ha sentito un ribollio avvertito anche altrove, magari in esemplari maggiormente raffinati (vedi – per sparare alto – Post Tenebras Lux [2012] o Fausto [2018]) che comunque condividono un magnetico richiamo all’oscurità, del resto, come dice la pagina IMDb, non è un dettaglio se per le riprese sono stati impiegati 666 rulli così come 666 sono le pagine che compongono il volume della Jelinek...

In un certo senso l’opera sotto esame è l’esasperazione trasportata nell’eccesso di un documentario realista quale è The Border Fence (2018). È vero che il tema dei migranti per Copper e Liska non è dominante sebbene inserito attraverso un gioco di parole (Stiria / Siria), però a mio avviso il discorso sa essere cavo ed ampio e si inserisce nella direzione di quel cinema austriaco che negli anni ha indagato il marcio appiccicato alle fondamenta del Paese. Di base è una faccenda di nazionalismi mai sopiti e dall’agghiacciante retaggio che dentro la narrazione si riflette sottotraccia nel rapporto tra genitori e figli, tra passato e presente, infatti il centro, ok, parecchio traballante ma pur sempre centro è, si colloca nello scontro tra una torva e anziana madre con l’attempata figlia che nel suo bislacco percorso tra la vita e la morte condurrà tutto (anche il film stesso) ad un’autodistruzione senza ritorno. Appunto, la morte: altro topic che arriva dritto dritto, è una puzza, fortissima, mascherata dal grottesco che, quando si scosta, offre quel che c’è sotto i celeberrimi sepolcri imbiancati, il lutto, la tragedia, sono esibizioni con il relativo pubblico, alcol, suicidi incrociati, omicidi efferati, grandi abbuffate, al depliant di mostruosità umane non manca praticamente niente. E poi, per aggiungere un ulteriore carico, si sconfina in un metacinema dalle tinte horrorifiche, e non si tratta di una noiosa digressione teoretica ma di una scoppiettante apocalisse terrena che generandosi da una sala cinematografica (grande l’idea di un “cinema del rimpianto”) si riversa nel contesto filmico con potenza carnevalesca e chiassosa, una specie di giudizio universale di anderssoniana memoria ma decisamente più pimpante. Il laccio tra settima arte, dimensione funebre e realtà politica è un cappio che stringe al collo, e siccome tale nodo scorsoio proviene da un film così grezzo e sbilenco l’apprezzamento raddoppia, o addirittura triplica.

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