Baton (2016) sarebbe potuto tranquillamente rimanere nell’oceano dell’anonimato se non avesse annoverato alla voce “sceneggiatura” quel Efthymis Filippou già penna fondamentale di Lanthimos e di buona parte della new wave greca. C’è però un fatto curioso perché in sostanza, qui, non vi è alcuna sceneggiatura, per cui da un lato abbiamo un Filippou che non ingabbia il film in una struttura metaforica, mentre dall’altro non si hanno tracce effettive di una scrittura. Il corto, diretto da un ragazzo spagnolo di nome Albert Moya, vive di e in un surrealismo finemente laccato che può ricordare o un videoclip (il direttore della fotografia si chiama Evan Prosofsky e nel suo curriculum vanta collaborazioni nei video musicali di artisti come Grimes, Arcade Fire e Paul McCartney) o lo spot di un qualche fashion brand di lusso (e non è un caso che gli abiti siano stati curati da Dries van Noten, noto stilista belga). Chiude il cerchio di questa reunion multi-artististica la presenza attoriale di un musicista canadese, Sean Nicholas Savage, che pare essere piuttosto apprezzato in giro.
Che cosa rimane al di là di un’estetica oltranzista è presto detto: nulla. Moya colloca la forma su un piedistallo e noi, senza possibilità di controbattere, ce ne stiamo zitti zitti a guardare. Certo, lo spettacolo (che a tratti sembra realmente tale nella diegesi visto che alcune sequenze si svolgono all’interno di un bellissimo teatro) possiede qualche milligrammo di fascino perché per impostazione scenica, palette di colori e briciole visionarie (il tappeto di bucce di banana) Baton ha sufficiente forza per farsi vedere fino alla fine (capirai... non sono neanche dodici minuti), il fatto è che arrivati alla suddetta fine l’impressione è di aver assistito a qualcosa di davvero effimero, senza spessore, narciso, e come tutto ciò che si specchia, che è vanitoso, anche fatto di un vuoto che le strambe parole messe in bocca a Savage (scritte da Filippou?) non riescono a colmare.
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