mercoledì 13 ottobre 2021

Dog Men

Dubito fortemente che qualcuno vedrà mai Dog Men (2014), opera seconda dei fratelli svizzeri Dario e Mirko Bischofberger, ma se così non fosse, se quel qualcuno spenderà un’ora e dieci minuti della sua vita davanti ad uno schermo, penso proprio che concorderà con me nell’affermare che va bene, va benissimo l’indipendenza, l’approccio low-budget e via discorrendo, però anche in casi come questo si richiede sempre un minimo sindacale nel campo della professionalità. Con ciò spero non me ne vogliano troppo Dario e Mirko se bollo il loro lavoro come amatoriale (cosa che in buona parte è visto che Mirko è un chimico mentre Dario si occupa di musica, e quindi il cinema sembra essere più che altro un’attività collaterale), in fondo li posso anche capire, con le poche finanze a disposizione si sono messi a giocare con gli apparati sci-fi e non potendo filmare una specie di invasione alinea à la Villeneuve, hanno ripiegato su un simil-western che appare l’imitazione dell’universo scentrato creato da Davide Manuli, quindi ok, comprendo tutto, anche se, comprendo meno, molto meno, tale scelta se rapportata al film d’esordio, Old Is the New (2012). Il punto di partenza è il medesimo: la scarsità di mezzi utilizzabili. Se nel precedente lungometraggio oscillante tra il documentaristico e non si faceva dell’indigenza una virtù perché si lavorava sul reale nudo e crudo cucendo, estrapolando, captando delle possibili storie, in Dog Men i Bischofberger si impuntano nella finzione, e non è una grande notizia perché anche all’occhio di un non appassionato salta immediatamente all’attenzione di quanto si sia lontani, qui, dagli standard indispensabili per poter parlare di cinema.

Senza accanirsi troppo che tanto non ne vale la pena ed il film in sé non lo merita neanche, ci sono carenze evidenti, sia sul piano estetico (non sono esperto di videocamere ma a volte il digitale aumentando la definizione sortisce un effetto di quasi appiattimento), e forse è meglio tacere sugli effetti ben poco speciali usati, praticamente un abbecedario del genere fantascientifico che se fosse stato autoironico avrebbe avuto anche un perché, ma messo così proprio no, che su quello del racconto che non ingrana mai, non accende l’interesse, si appesantisce in silenzi che non ce la fanno ad essere “autoriali”, il bighellonare dei due uomini è statico, mi spiace dirlo: un po’ morto, tanto è che la faccenda non si ravviva nemmeno con l’introduzione di personaggi borderline tipo il cieco o il bandito, ed è meglio non aggiungere nulla sulla poverissima caratterizzazione dell’aliena e sugli strumenti tecnologici (?) che la tengono in contatto con il suo compare, davvero, preferisco sorvolare. E niente ragazzi, a parte sottolineare che Dario e Mirko Bischofberger rafforzano il loro feeling con l’Italia (il film è girato in una cava sull’isola di Favignana, ci sono degli ingressi musicali in italiano, i mangiacani sono un riferimento a certe situazioni che si verificavano in passato nel profondo meridione), non so che altro dire, al massimo segnalo la presenza di due filmati d’archivio che rimandano alla questione della preda e del cacciatore che sì e no attraversa il film stesso, e uno di essi, quello africano, mi ha riportato alla mente Miguel Gomes, poi sono subito rinsavito.

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