sabato 2 ottobre 2021

La Nuda

Quando dormivamo insieme non c’era più un mio o un suo ma solo mani posate sopra guance e unghie che sfioravano gli intarsi cartilaginosi delle orecchie, non c’erano sogni individuali ma orizzonti di cristallo soffiati via dal nostro alito azzurro e saliti su per le narici, quando di notte cercavamo, come tutti, di medicare le reciproche debolezze, la ferita aperta sui nostri fianchi ci rendeva consanguinei, quando ci svegliavamo sotto la cattedrale di coperte, ogni volta disastrata da un terremoto, eravamo gli unici sopravvissuti pronti ad affrontare il domani. Quando non c’era altro che un quando era bello, nella banalità della bellezza quotidiana, averla accanto, animaletto fragile, raggomitolato sul divano dell’appartamento che avevamo preso in affitto, una casetta-fungo nel bosco con il comignolo fumante, un ex negozio riconvertito in abitazione vicino ad un incrocio. Siamo qualcosa che possa assomigliare ad un concetto occidentale di felicità?, glielo chiedevo così, dal nulla, e lei rideva molto perché forse, in fondo, la felicità è universale, non ha geografia né cultura, e quindi facevamo la spesa, attenti alle offerte, spulciavamo su Booking le camere di hotel esotici in cui forse, nel futuro, saremmo andati, passeggiavamo per il centro storico della città in una bolla inscalfibile da tutto, ad esclusione della tremenda efferatezza di una mail: LA mail. Arrivò sulla sua casella di posta, tra una pubblicità e l’altra, direttamente dall’ufficio risorse umane dove lavorava, gentile signorina, scrivevano, al termine dell’attuale contratto in essere la società ha deciso di non rinnovare ulteriormente il rapporto professionale. Due mesi, due mesi ancora e poi: boh. Nella casetta-fungo, d’improvviso, il comignolo smise di fumare, e io, io non seppi che fare perché le mie rassicurazioni erano deboli al pari della mia posizione, vedi, diceva lei, il problema non riguarda solo il fatto che tra poco perderò il lavoro quanto tu, che ti ricordo hai trentatré anni, ne hai uno ridicolo, come pensi che pagheremo il padrone di casa fra poco? Ma sì, non ti preoccupare, in qualche modo faremo, solo che, quella domanda, divenne un’ossessione, era ovunque: sul cartone del latte al mattino, nelle news al tg della sera, perfino il gatto della vicina che ogni tanto veniva a sgranocchiare due croccantini abbandonò il suo noncurante istinto verso il mondo circostante per chiedermi: come farete a pagare l’affitto? Ora c’era di nuovo un mio e un suo, il mio non toccare l’argomento per evitare di scatenare discussioni destinate comunque ad accadere, la sua ricerca spasmodica di un nuovo impiego dopo cena, con il portatile bollente sulle cosce, il senso di impotenza, di essere precipitati dal sottile filo dell’equilibrio in una realtà stinta, senza Booking, senza passeggiate, senza gran parte delle cose che mi erano sembrate, da sempre, innate per due come noi. Come noi, cosa? Per la prima volta sentii un odore strano nel suo fiato mentre pronunciava la parola cosa, di muschio, di umidità, piccola mia, tentando di portarla a me, troveremo una soluzione. L’indomani mi chiamò per dirmi che quella sera avrebbe dormito da sua madre, che ne aveva bisogno, che eccetera eccetera. Ovvio: stetti male, questioni di vuoto, sia fisico che emotivo, ritornò e la accolsi come una regina ma... era strana, la pelle del suo corpo era strana, al posto del rosa un pallore verdognolo, ed era fredda, al tatto, quasi viscida. Sotto l’arcata di piumoni cercai di farla minuscola nel mio abbraccio, fallii, e fuori, nel bosco, le fronde degli alberi ondeggiavano per il temporale imminente, allora sai che ti dico, sì, alzai i toni, adesso mi troverò un lavoro e penserò io all’affitto, oppure no, ce la compriamo una casa e tu non dovrai pensare a nulla. Un tuono sconquassò i muri e dopo il primo scroscio un torrente d’acqua continua si riversò all’esterno, lei, lontana chilometri e chilometri, seduta di schiena sul bordo del letto con le scapole in evidenza e la testa china sul petto, emise un flebile: ormai è troppo tardi, unito al presagio che forse non avrei mai più sentito la sua voce.

Rimasi lì ancora per qualche settimana ad ascoltare il liquido ticchettio della solitudine che sbatteva contro le finestre, poi, anch’io, me ne andai. Presi un taxi, un treno e una corriera, sotto un cielo di pesca giunsi nel paesino dove era nato mio padre, là dove l’autunno durava per dodici mesi e dove inseguivo la vana illusione di ritrovare me stesso. Se lei fosse stata con me mentre giravo la chiave nella toppa del vecchio casolare di famiglia probabilmente avrei percepito quell’eccitante sensazione di condividere qualcosa di nuovo con una persona vicina, invece all’ovattato clangore della serratura che dopo secoli si rimetteva in moto corrispose solo il clac dei ferri a cui seguì la fuoriuscita di una nuvoletta di polvere e piccole falene cieche. Dentro: la conferma dei miei ricordi infantili: un armadio imponente, in legno scuro come il tavolo, una radio rossa con delle manopole, là in fondo il cucinino, a fianco le scale che portavano al secondo piano, e un rumore: di gocce, anzi no, di passi, che arrivavano lenti, ma non di piedi, bensì di zampe, otto sottili zampe che scendevano i gradini, e un verso che ne conteneva il riverbero di altri mille: chi sei tu? Che ci fai nella mia casa? Immaginai come quel ragno pluri-occhiuto e grosso come un cagnone potesse vedere un tizio che lo disturbava da una lunga tranquillità: ero una minaccia, cercai allora di esporre le mie ragioni: mi scusi per l’irruzione, ma vede, ehm, per il catasto io sono il proprietario dell’immobile, c’è la successione ratificata da un notaio, se nota... ho le chiavi. Alcuni dei suoi occhi si illuminarono di un chiarore: ah, ho capito disse, mi scusi lei se sono sembrato brusco ma sa, di ’sti tempi... ad ogni modo benvenuto, o forse bentornato! Dopotutto, era un ragno gentile e non me la sentivo di sfrattarlo. A quanto pare anche lui aveva un passato complicato, una relazione fallita e un centinaio di figli dispersi sulla montagna erano stati il giusto viatico per rintanarsi in quelle quattro mura scrostate e mandare al diavolo il resto del mondo, il mio proposito non era tanto diverso gli spiegai, dovevo ristabilire un ordine personale e non mi restava che farlo lontano da dove ero vissuto di recente. Così cenammo, lui con un paio di calabroni che si era procacciato al mattino e io con delle mele e delle pere colte nel campo dietro il casale. Ero stanco, svuotato, la casa-fungo, il lavoro, l’insicurezza, l’affitto, lo scoramento, le gambe esili, il suo culo latteo, la spina dorsale che era una cremagliera diretta alla nuca, salii al piano di sopra ed entrai nella camera da letto facendomi largo tra le spesse coltri ragnatelesche, un’amaca serica mi parve il giaciglio migliore per riposare, e mentre udivo il ragno che si lavava i cheliceri fischiettando, il suo viso si materializzò sotto le mie palpebre, delicata visione muliebre, apparizione e sparizione, la pensavo anche quando non la pensavo, come un fiume carsico che scorre nelle viscere e sull’epidermide, erodendomi.

Non c’è più nessuno qua, sono tutti morti.

Non c’è più nessuno a parte il signor Vinscio, aggiunse il mio amico aracnide-xl ingerendo una manciata di mosche per colazione. Fuori: l’alfabeto della memoria: il paese arancione, camminare-ricordare, cumuli e cumuli e cumuli di foglie secche sull’unica strada asfaltata che attraversava l’agglomerato di casupole, tegole pericolanti, tegole mancanti, il fienile dove giocavo da piccolo invaso da una cascata di rovi, sui cavi dell’elettricità che collegavano palo a palo qualcuno aveva posizionato dei dischi di plastica per evitare che i ghiri si trasformassero in ladri acrobati, mentre ripercorrevo questo spazio dolce e malinconico, ogni tanto, dalle erbacce alte quasi quanto me, udivo dei bisbigli, era la voce di mamma che si scambiava un saluto con la vicina, era la voce di papà che cantava insieme ai suoi cugini la vigilia di Natale, era la voce di lei, l’infruttescenza di un dente di leone che al minimo refolo di vento si dissolve nell’aria. Camminare-ricordare-sperare di ricongiungere certe dimensioni smarrite, conchiglie su cui poggiare l’orecchio per riassaporare quell’innocenza che mi pervadeva durante le visite al signor Vinscio, la stessa che ora tentavo di riacciuffare mentre aprivo il cancelletto arrugginito del suo giardino, lo stesso cigolio, solo più acuto, la stessa catasta di legna, solo più marcescente, la stessa porta d’ingresso, solo più scolorita; non potrei dire che dentro era tutto esattamente come allora perché, semplicemente, i ricordi si erano pian piano sgretolati, ma vedendo la stadera in bronzo appesa al muro, il cestino di vimini, il quadretto dal paesaggio nemorale, il bicchiere con due dita di vino rosso sul tavolo, ebbi l’impressione che sì, ero nel posto giusto, e poi il signor Vinscio, in effetti era ancora vivo, o forse non del tutto morto, seduto a tavola parlottava tra sé: sìsì... loro si sono presi... non ci hanno lasciato... hanno ucciso... sìsì... hanno violentato le donne... sìsì... i bambini... gli stivali neri... sìsì... lucidi, e mentre continuava a discutere con dei fantasmi che ogni tanto venivano evidentemente a fargli visita mi schiarii la gola: ehm ehm, e quelle palline bianche appena iridate di celeste rotearono nelle orbite ossute della testa teschio, sotto capelli radi e fini, in una pelle incartapecorita, sottile, velina, mi guardò come se fossi uno dei suoi amici ectoplasmici, e forse non aveva tutti i torti. Al che gli feci la domanda che papà poneva ogni settembre: signor Vinscio, quest’anno dove nascono i funghi? Le labbra, ritiratesi fino alla radice del naso, esibivano una dentatura smagliante, un sorriso o un gelo perenne, i funghi... sìsì... quest’anno... devi andare alla Nuda... sìsì, li hanno portati dietro la chiesa... sìsì... ratata- ratata.... sìsì.... ammassati uno sopra l’altro... sìsì.... un fiume di budella... sìsì. Il crepuscolo che non termina mai e infinite galassie più un là la morbida melodia di un sax, perché non l’ho mai portata qui? Perché non sono riuscito a dare un seguito alle speranze che coltivavamo? Perché non ho almeno tentato di lavorare per un futuro? Perché lei è un coglione, la sentenza del ragnone appeso al soffitto mi ammutolì, aria, aria fresca, lassù uno stormo di uccelli cupi ad ali spiegate, una flotta compatta di croci volanti. Presto sarei andato alla Nuda.

Partii all’alba, sull’uscio, il ragno: per favore, se vede qualcuno dei miei figli dica loro che mi mancano tanto. Imboccai il sentiero contornato da lucciole che non si erano accorte del sopraggiungere di un nuovo giorno e pulsavano panciute dando vita ad una costellazione mobile, non sapevo, o meglio, non ricordavo la strada per la Nuda, dovevo salire, in alto, su per la montagna, laddove gli alberi smettevano di crescere, sul cucuzzolo brullo, gialloverde, pettinato dal vento. Dopo un’ora, o un lustro, o un decennio, sentivo già l’acido lattico tendermi le fibre muscolari, con la schiena scivolai lungo un tronco per riposare, chiudendo gli occhi, aprendoli, richiudendoli, da un altro tronco si spalancò uno sportellino e a mo’ di cucù sbucò un tablet dove in un video scorrevano le immagini ravvicinate di mele, meloni, angurie, manghi, albicocche, nespole, la rotondità, di diverse forme, come una testolina alla fine della carrellata, testolina con trecce e lentiggini, e grembiule floreale, buongiorno buonasera, le monete da riporre nella cassa a fine turno, la giovane garzona del fruttivendolo, un mare di sogni luccicanti nelle pupille, le guance improvvisamente rosse all’ingresso nel negozio di una signora insieme al figlio dalle ginocchia sbucciate, sembrerebbero coetanei, si guardano per la prima di innumerevoli volte a seguire, sono i miei genitori, inconsapevoli del vicendevole destino, amaro e radioso come ogni destino.

Mi ero riposato abbastanza, il pendio si faceva erto, l’intrico di rami e foglie verdi lasciava coriandoli d’azzurro che via via andavano diradandosi per essere sostituiti da un’impenetrabile tetto arboreo, il sentiero era svanito, procedevo per istinto, innalzandomi su radici sporgenti, scavalcando mucchi di pietre umide, sudore lungo le tempie, ghiotta fonte di abbeveramento per dei fastidiosi mosconi che ronzavano pesanti, e zzz e zzz e zzz, tentando di scacciarne un nugolo inciampai e caddi a terra sbattendo la testa contro un sasso appuntito. Bubbolii ovattati, prono sull’erba, intontito, divenni lo spettatore di uno spettacolino messo su da alcune cimici, una di esse, sul palcoscenico di rametti, indossava una mini t-shirt con la mia faccia, e quindi la cimice-me lavorava in un ufficio con altri colleghi, ogni dì una sfida con l’orologio appeso al muro, pratiche da impilare, richieste da evadere, monotonia, a fine mese un bonifico di 1.250 € sul conto corrente, e poi, in un cambio scena, l’insetto-io entrava in un portone, saliva le scale con in mano la ventiquattrore e sul pianerottolo trovava ad attenderlo la moglie-cimice e la figlia-cimice e dopo cena, sotto una coperta scozzese, guardavano la tv fino a che la piccola non si addormentava, così la mettevano a letto e poco dopo anche i coniugi-parassiti si infilavano sotto le coperte spegnendo l’abat-jour: buio in sala: sipario.

Il sangue si era già seccato sulla tempia, puzzavo da morire, affannato provavo l’ascensione verso la Nuda, dovrei quasi esserci pensai, ma nel frattempo ad ovest una gigantesca bocca terrena inghiottì il disco del sole e l’oscurità dilagò ovunque. Un bosco di notte non è più un bosco, è una somma indeterminabile di macchie e di suoni, nere chiazze vive, sibili, frullare d’ali, borborigmi e sguardi, migliaia di sguardi sbarrati, ad ogni altezza. Oltre a: due mandorle scarlatte che si avvicinavano, una specie di grugnito, dall’olezzo poteva essere un cinghiale, sebbene fossi cieco intravidi un repentino spostamento nell’aria atra a cui seguì un dolore assurdo, le sue fauci affondavano nel mio polpaccio, strappavano lacerti di pantaloni e di carne, certo, cercai di divincolarmi scalciando e sbracciando, però era un confronto impari, la bestia mi stava mangiando, e quando la sua fetida bava sgocciolava già sul mio viso pronosticai la possibile fine, invece la belva posò il muso nell’incavo della spalla dicendo con timbro suino: ascoltami bene, questa è la storia del signor Vinscio: non del suo passato, del suo futuro. Una sera, dopo aver trangugiato la solita minestra, si metterà sulla poltrona viola ad osservare la legna che scoppietta nel camino, una scintilla balzerà sul pavimento proprio vicino a dei giornali che in un attimo prenderanno fuoco. Il signor Vinscio non proverà nemmeno a spegnere l’incendio, se ne starà lì seduto, nel mezzo delle fiamme, mentre l’ossigeno si riduce e la poca pelle rimasta gli si scioglie addosso. Al culmine della combustione, tra le vampate, suo fratello ventenne, fucilato da dei fascisti insieme ad altri compaesani, lo prenderà sotto braccio e insieme voleranno dalla canna fumaria, come uno sbuffo di vapore, una nuvoletta grigia.

Di là delle pianure, tra file di frutteti, all’ondeggiare delle felci, nei placidi fondali lacustri, tra i fiori finti dei cimiteri semi abbandonati, sotto l’ombra delle querce, dentro le tane zeppe di processionarie, sul carapace dei granchi di fiume, affianco al corpo molle e glabro dei lombrichi, una sinfonia si sposta di valle in valle, come banchi di nebbia all’alba, e anche io, ora, ne facevo parte. Martoriato avevo trovato posto in un fazzoletto d’erba libero dalla cappa dei rami mentre a est l’enorme bocca disserrava i denti per risputare in alto il medaglione aureo i cui raggi timidi mi accarezzavano docili, sì, a me, sdraiato e pesto, un uomo vitruviano senza proporzioni, smembrato, tocco di carne messo a macerare e in via di putrefazione dotato di una consapevolezza: che non avrei mai raggiunto la Nuda, e lo gridai, un po’ ridendo e un po’ tossendo, al défilé di nuvole lassù.

<<No, non ci arriverai mai>>

Mi ero sbagliato! Oh gioia, oh tripudio, la sua voce ancora, era lei, proprio lei!, strisciante, seducente, verde, a scaglie, muovendosi formava un susseguirsi ipnotico di S, S S S S S S S S, ed eravamo vicini, vicinissimi, ne sentivo il profumo, di muschio, e la lingua biforcuta che vibrava sillabando il mio nome: era splendida, ritta e ondulante, spalancò il palato rosa come la sua fica e all’estremità dei denti uncinati vidi il brillio di due gocce avvelenate. Mi sei mancata tanto, sai, sono venuto qui per cercare ciò che avevo perso, tipico comportamento di chi dà peso a ciò che davvero conta solo nel momento in cui non lo ha più, ho fatto degli errori, non sono stato capace di darti sicurezze, del resto avevi solo bisogno di una persona con la credibilità di dirti che non c’era bisogno di fare drammi, che nulla era compromesso, so di non poter essere quella persona, ma so anche che potrei diventarlo a breve, ho mandato parecchi curricula, li ho perfino consegnati di porta in porta, aspetto risposte e nel frattempo tengo sott’occhio gli annunci immobiliari, mi piacerebbe comprare una casa con vista sul porto, così di sabato mattina, con alle spalle una dura settimana lavorativa, potremo fare colazione guardando le navi da crociera che salpano per il Mediterraneo, che ne pensi tesoro?

<<Vieni, andiamo a fare l’amore>>

Rasoterra, piante basse sulla mia fronte, scivolare uniti nella selva alla base di un castagno, i ricci schiusi appena caduti, le radici e la superficie, lei sale su per le increspature del tronco, si allunga su un ramo e inizia a penzolare bambina, sorridendo. Ho solo la forza di alzare la mano a cui lei maternamente si attorciglia issandomi. Sono felice. Abbiamo di nuovo un nostro quando, ci saranno altre offerte al discount, altre lussuose camere matrimoniali da visionare su Internet, altre passeggiate sulle mattonelle irregolari dei vicoli, o forse ci sarà qualcos’altro di completamente diverso, tipo un figlio, ovvio!, la prosecuzione in sangue e ossicine del nostro noi, il compimento di un ciclo, l’eredità della vita, le responsabilità, l’avvenire, l’invecchiare. Sono nel suo abbraccio freddo, i miei piedi non toccano più il suolo, appeso: a lei, che voluttuosa titilla, divento una protesi rettile, dondolo in sospensione, la sento stringere intorno al collo. Una sciarpa di squame. Ciondolo inerte. La boscaglia si offusca, l’aria si raddensa, sul fusto dirimpetto una placca di metallo quasi illeggibile dice: N DA →, inspiro, espiro, il torace come il mantice forato di una fisarmonica, sgambetto nel vuoto, paonazzo, la sfioro, non la vedo, non vedo niente, la trachea si comprime, la saliva ristagna e comincia a colare da un angolo della bocca.

Mi tieni a te ancora più forte, sei avvinghiata a questo organismo macilento, le vertebre cervicali frantumate, la sclera bianca che invade tutto, la schiuma gorgogliante in bollicine giù dal mento: nodo, rantolio, scatto, nervo, frusta, tremolio, un poco meno, ancora meno, spegnendomi nel silenzio, pace: sono felice, siamo felici.

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