Ecco, nel movimento, esattamente fisico, della combriccola c’è un po’ il senso di Fotográfia (1973), nonché il senso, e la sua spasmodica ricerca, di un cinema che a noi piace romanticamente immaginare così: lontano dalle paillettes e immerso, fino al collo, nella vita che esorbita incontenibile per provare, quindi, a spiegarcela questa vita, a dirci un paio di cose su di lei, o a spalancarci ulteriori abissi, come se non bastassero quelli che già bisogna fronteggiare. Nelle intenzioni di Pál Zolnay (1928 – 1995) ci potrebbe anche stare un tale slancio, quello che il regista fa del resto è allontanarsi dalla massa per inoltrarsi nella singolarità delle persone, nelle loro storie, e il passepartout che gli permette di accedere ad un siffatto scrigno esistenziale è la fotografia. L’intero film si poggia sul pretesto di fotografare esteriormente degli esseri umani, poveri, poverissimi, gente che ha un tetto sopra la testa e un fazzoletto di terra con cui tirare avanti, per poi, in realtà, fotografarle dentro poiché sono loro stessi, mollate le resistenze, ad aprirsi davanti alla cinepresa. Ben presto la questione fotografica diventa periferica, Zolnay, per mezzo dei suoi giovani che vagano per i paesi, si tramuta in un intervistatore/indagatore che cerca di assorbire più che può da chi incontra. La relativa sorpresa è che, nonostante siano passati quasi cinquant’anni, certi racconti sanno eternarsi e mantengono, oggi, il medesimo carico di disperazione (il riferimento è alla madre assassina che si prende il maggior minutaggio della proiezione), insomma qui ci sono vite e trascorsi complicati da raccontare, delusioni, speranze, amori, ecc., tutta materia narrativa buona per una sceneggiatura.
E infatti, se si vuole muovere una critica (per la serie: ma non hai di meglio da fare che additare una pellicola ungherese in bianco e nero del ’73?), lo si può fare nei confronti del registro adottato che, appunto, si rifà ad un impianto sceneggiaturiale, il che stride con l’idea del film, ovvero il perseguimento della verità. Non è che le varie testimonianze siano finzionalizzate (anche se dei dubbiettini sorgono), quello no, è piuttosto la gestione del fotografo e del suo compare che ci viene proposta in una veste da “film”, ad esempio ci sono molti controcampi sui loro volti che sono lì a sottotitolare lo stupore che provano mentre ascoltano le babushke locali, in generale si avverte l’intenzione di costruire una scena, una sequenza, ed anche se in un territorio inevitabilmente rudimentale Zolnay intensifica, si fa “sentire”, se così si può dire. Ovvio che contestualizzando l’epoca ci sono degli alibi, d’altronde non stiamo parlando di Kubrick, come al contempo appoggio la riuscita di talune scene che, pianificate a tavolino o meno, comunicano ancora qualcosa a noi spettatori del ventunesimo secolo (il vecchietto alle prese con l’apparecchio acustico; il monologo fuori campo della mamma killer con primo piano sulla sua foto nuziale), poi concordo con voi sul fatto che effettuare ripescaggi del genere non c’entra niente con la passione per il cinema ma è pura, limpida, tersa misantropia.
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