Il dono (2003), primo lungometraggio di Michelangelo Frammartino, è un film che lo spettatore costruisce da sé attraverso degli indizi. Il primo arriva subito, ed è un cane che non riesce ad alzarsi da terra, la metafora è lampante: un paesino arroccato su se stesso privo di un qualunque futuro. Il secondo è una foto pornografica che il vecchio, nonno del regista, trova per caso, e quindi si intuisce di come anche in un grumo di casette la sessualità sia mercificata, ridotta. Il terzo è una palla che rotola giù per i viottoli del paese in una discesa parallelamente senza fine.
Il tutto inserito in uno scenario archetipico come quello agreste, laddove la ruralità dei paesaggi esprime una forza unicamente originaria che Frammartino riprende senza muoversi, chi si muove sono invece gli uomini, quasi tutti vecchi, che vagano per le stradine acciottolate come fantasmi ignari di esserlo, e i cui primi piani regalano infinite storie raccontate dalle rughe labirintiche che solcano i loro visi.
Ripetizione, superstizione, tempo. Temi che verranno ripresi ne Le quattro volte (2010) e che qui ritornano continuamente sottoforma di ulteriori indizi. La scema del villaggio caricata ai piedi della salita dai maschi del borgo e usata per le loro voglie sessuali, i rimedi “magici” contro l’idiozia della ragazza attuati da due vecchie donne, il giorno segnato dai ritmi della natura, la vita scandita da un cestino di vimini che appeso dondola silenzioso dal soffitto.
Il budget risicatissimo (si parla di appena 5000 euro) non inficia minimamente la riuscita complessiva dell’opera che ricorda per forza di cose Il vento fa il suo giro (2005), ma se il film di Diritti pur affrontando temi simili aveva una forte contestualizzazione ovviamente rintracciabile nel dialetto occitano, qui persiste al contrario una sensazione di astrazione dove un paesino diventa il paesino e dove i suoi abitanti non sono soltanto la vita agricola che vivono ma un’allegoria di significati molto più ampi che tocca anche noi uomini metropolitani.
Precisazione: nel film vi sono elementi concretizzanti che vanno dalle semplici targhe delle automobili ai brevi dialoghi nella lingua del posto fra le persone. Tuttavia si esplicita ancora una volta la superfluità delle parole, per cui pur non capendo granché di quel che si dicono, si capisce tutto.
Alla fine, congiunte le molteplici tracce, non resta che gustarsi il bellissimo finale in grado di dare un significato profondo come la terra al titolo, e renderci conto che il vero dono è quello che Frammartino ha fatto a noi.
Il tutto inserito in uno scenario archetipico come quello agreste, laddove la ruralità dei paesaggi esprime una forza unicamente originaria che Frammartino riprende senza muoversi, chi si muove sono invece gli uomini, quasi tutti vecchi, che vagano per le stradine acciottolate come fantasmi ignari di esserlo, e i cui primi piani regalano infinite storie raccontate dalle rughe labirintiche che solcano i loro visi.
Ripetizione, superstizione, tempo. Temi che verranno ripresi ne Le quattro volte (2010) e che qui ritornano continuamente sottoforma di ulteriori indizi. La scema del villaggio caricata ai piedi della salita dai maschi del borgo e usata per le loro voglie sessuali, i rimedi “magici” contro l’idiozia della ragazza attuati da due vecchie donne, il giorno segnato dai ritmi della natura, la vita scandita da un cestino di vimini che appeso dondola silenzioso dal soffitto.
Il budget risicatissimo (si parla di appena 5000 euro) non inficia minimamente la riuscita complessiva dell’opera che ricorda per forza di cose Il vento fa il suo giro (2005), ma se il film di Diritti pur affrontando temi simili aveva una forte contestualizzazione ovviamente rintracciabile nel dialetto occitano, qui persiste al contrario una sensazione di astrazione dove un paesino diventa il paesino e dove i suoi abitanti non sono soltanto la vita agricola che vivono ma un’allegoria di significati molto più ampi che tocca anche noi uomini metropolitani.
Precisazione: nel film vi sono elementi concretizzanti che vanno dalle semplici targhe delle automobili ai brevi dialoghi nella lingua del posto fra le persone. Tuttavia si esplicita ancora una volta la superfluità delle parole, per cui pur non capendo granché di quel che si dicono, si capisce tutto.
Alla fine, congiunte le molteplici tracce, non resta che gustarsi il bellissimo finale in grado di dare un significato profondo come la terra al titolo, e renderci conto che il vero dono è quello che Frammartino ha fatto a noi.
sai che non sono proprio riuscito a trovarlo questo? (se hai dritte, spara :)
RispondiEliminaad ogni modo, Le quattro volte l'ho trovato splendido e Frammartino non mi faccio problemi a metterlo tra i pochi registi italiani degni di fiducia e rispetto.
vorrei tanto vedere qualcosa di suo. Ho sentito dire che ricorda Bresson, e infatti da come ne parli, pare proprio di si.
RispondiEliminaEinzì, mi pare di averlo reperito in un contesto diciamo animale e non fluviale. Rippaggio da tv comunque, presumo Fuori orario. Io Le quattro volte non l'ho ancora visto ma so già che sarà un filmone.
RispondiEliminaNon so J., perché Bresson non lo conosco, però in questa intervista: http://www.schermaglie.it/italiana/1489/la-poesia-dellinvisibile-intervista-a-frammartino lo cita come fonte di ispirazione. E gli altri nomi che fa mi scaldano il cuore.
gioiello! complimenti per averlo riesumato...
RispondiEliminaCome succede molto spesso nel tuo blog scopro piccoli gioielli da scoprire.
RispondiEliminaTi volevo inoltre chiedere se hai mai visto il film di cui ho parlato nel mio ultimo post ovvero Il Labirinto del Fauno.