András è un ragazzo che si diletta nel suonare il violino. Ha un gran talento ma non avendo avuto una formazione musicale ben precisa non può permettersi di fare il musicista. Così lavora come infermiere in un ospedale psichiatrico; il lavoro lo svolgerebbe anche bene, purtroppo però viene licenziato a causa di un suo brutto vizio: quello di alzare il gomito. Allo sbando, con un figlio che tutti sanno non essere suo da mantenere, prova a rifarsi una vita trovando un posto in fabbrica, e sposando la barista di un locale che frequentava. Le difficoltà che dovranno affrontare saranno dovute sia al contesto sociale in cui sono calati, sia all’indisponenza di András che sembra interessarsi solo all’alcol e alla musica.
Il secondo lungometraggio di Béla Tarr – 1981 – non si allontana troppo dal suo lavoro d’esordio. A parte il colore (assoluta rarità all’interno della sua filmografia) l’impianto registico è pressoché identico. Gran parte delle riprese sono costituite da dialoghi, che molto spesso diventano monologhi, in cui la mdp si sofferma praticamente immobile sul viso degli attori mentre parlano. Anche l’argomento trattato si avvicina di molto a quello analizzato da Nido familiare (1979), ovvero le difficoltà esistenziali di una giovane coppia nell’Ungheria degli anni ’80. Qui, però, l’occhio di bue si concentra di più sulla figura di András e sul suo animo inquieto che sulle vicissitudini coniugali.
Il comportamento del protagonista non è dei più corretti. Forse l’origine di questa sua “pazzia” va ricercata in una realtà che non permette una mobilità verso l’alto, e di conseguenza nemmeno un miglioramento della propria condizione sociale. Si noti di come i sogni musicali di András vengano ridotti al poco gratificante lavoretto di cambiare dischi in una discoteca, costringendolo così ad immaginarsi un direttore d’orchestra nella sua piccola stanza.
La musica è la novità più corposa rispetto a Nido familiare. Le note interrompono (per fortuna) alcuni dialoghi torrenziali dai quali si esce ogni volta provati. Inoltre ha l’onore e l’onore di aprire e chiudere il film. E al di là di citazioni che sicuramente non avrò colto, si potrebbe vedere il tutto come la ballata di un uomo, e, perché no visto il finale molto “politico”, di un’intera nazione.
Detto ciò, chiarisco che The Outsider non è un film memorabile. Questo perché il suo valore tecnico è piccolo piccolo in quanto la pellicola ricalca troppo, ma veramente troppo, l’opera precedente (in ogni caso più semplice e più fruibile di questa), con l’aggravante del fatto che le riprese sono “sgradevoli” alla vista e la pesantezza dei dialoghi è quasi insostenibile. Vedere tutto questo una volta può anche andare, due volte risulta un po’ stucchevole.
Ma soprattutto, l’aspetto che più mi lascia dubbioso è questo: quanto è utile, a distanza di quasi tren’anni, venire a conoscenza di uno spaccato dell’Ungheria socialista? La mia non è una domanda retorica poiché su tale questione si giocano le sorti del film. Se l’esigenza di sapere come andavano le cose negli anni ’80 in Ungheria non è un bisogno impellente, allora The Outsider non ha granché da dire, ma se invece è il contrario allora il film acquista molto più valore. Perché oltre all’analisi politico-sociale non c’è molto altro da ricordare.
Il secondo lungometraggio di Béla Tarr – 1981 – non si allontana troppo dal suo lavoro d’esordio. A parte il colore (assoluta rarità all’interno della sua filmografia) l’impianto registico è pressoché identico. Gran parte delle riprese sono costituite da dialoghi, che molto spesso diventano monologhi, in cui la mdp si sofferma praticamente immobile sul viso degli attori mentre parlano. Anche l’argomento trattato si avvicina di molto a quello analizzato da Nido familiare (1979), ovvero le difficoltà esistenziali di una giovane coppia nell’Ungheria degli anni ’80. Qui, però, l’occhio di bue si concentra di più sulla figura di András e sul suo animo inquieto che sulle vicissitudini coniugali.
Il comportamento del protagonista non è dei più corretti. Forse l’origine di questa sua “pazzia” va ricercata in una realtà che non permette una mobilità verso l’alto, e di conseguenza nemmeno un miglioramento della propria condizione sociale. Si noti di come i sogni musicali di András vengano ridotti al poco gratificante lavoretto di cambiare dischi in una discoteca, costringendolo così ad immaginarsi un direttore d’orchestra nella sua piccola stanza.
La musica è la novità più corposa rispetto a Nido familiare. Le note interrompono (per fortuna) alcuni dialoghi torrenziali dai quali si esce ogni volta provati. Inoltre ha l’onore e l’onore di aprire e chiudere il film. E al di là di citazioni che sicuramente non avrò colto, si potrebbe vedere il tutto come la ballata di un uomo, e, perché no visto il finale molto “politico”, di un’intera nazione.
Detto ciò, chiarisco che The Outsider non è un film memorabile. Questo perché il suo valore tecnico è piccolo piccolo in quanto la pellicola ricalca troppo, ma veramente troppo, l’opera precedente (in ogni caso più semplice e più fruibile di questa), con l’aggravante del fatto che le riprese sono “sgradevoli” alla vista e la pesantezza dei dialoghi è quasi insostenibile. Vedere tutto questo una volta può anche andare, due volte risulta un po’ stucchevole.
Ma soprattutto, l’aspetto che più mi lascia dubbioso è questo: quanto è utile, a distanza di quasi tren’anni, venire a conoscenza di uno spaccato dell’Ungheria socialista? La mia non è una domanda retorica poiché su tale questione si giocano le sorti del film. Se l’esigenza di sapere come andavano le cose negli anni ’80 in Ungheria non è un bisogno impellente, allora The Outsider non ha granché da dire, ma se invece è il contrario allora il film acquista molto più valore. Perché oltre all’analisi politico-sociale non c’è molto altro da ricordare.
stai per arrivar ai capolavori..ciao amico mio..auguri
RispondiEliminaAuguri anche a te! ;)
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