Madeline e Michael riescono a concepire una bambina dopo due tragici aborti. La donna per far sì che la gravidanza prosegua nel migliore dei modi si affida alle cure di una dottoressa vegana con la quale ebbe in passato una liaison; di conseguenza la situazione non è ben vista né dal marito né dall’odiosa suocera. Una sera la coppia, rientrando a casa, viene coinvolta in un incidente in cui muore sia Michael che, in apparenza, la bimba portata nel grembo dalla donna. La neo mamma è però convinta nel proseguire la gravidanza, e dopo che la piccola Grace nasce viva tra lo stupore di tutti, Madeline dovrà fare i conti con una mostruosa realtà. Incoraggiante esordio di questo trentenne regista americano che espande un suo corto di soli sei minuti girato nel 2006 sempre con lo stesso nome.
Fin dal titolo Solet cala l’opera in un contesto d’instabilità. Chiamare Grace (leggi Grazia) un bebè succhiasangue appare più come una condanna che un dono del cielo. Ed oltre ai nomi assegnati – non va dimenticato quello della protagonista in cui rimbombano echi religiosi – è doveroso sottolineare di come nel film sia presente una forte ambiguità nei rapporti famigliari, nonché in quelli sentimentali.
A partire dalla prima scena in cui Madeline fa l’amore con suo marito ma il suo viso sembra apatico, per proseguire con la storia saffica della stessa donna con la dottoressa, senza tralasciare la suocera Vivian che pare intendersela bene con un dottore, emerge abbastanza chiaramente un quadro generale in cui nessuno è moralmente in pace con se stesso, immergendo la vicenda già piuttosto “malata” in un’oscura pozza torbida dove le risposte salite a galla sono poche. E questo è un punto a favore del regista che lascia più di un qualcosa in sospeso senza sentirsi in dovere di spiegare (inutilmente) tutto per filo e per segno.
Un altro spunto di riflessione parecchio interessante è il parallelo che viene posto tra Madeline e sua suocera Vivian. In sostanza le due donne vivono entrambe un dramma materno; la differenza che intercorre tra il partorire una bimba-mostro ed il perdere il proprio figlio in un incidente stradale non sembra essere troppa. E così è apprezzabile lo sforzo del regista che cerca di isolare sempre più Madeline con la sua creatura, e di rendere la suocera sempre più bramosa nel voler sottrarre Grace a sua nuora per riacquistare la propria maternità.
Tali introspezioni rendono Grace un horror sui generis in cui si lascia più spazio all’immaginazione anche nelle scene potenzialmente splatterose. Oltre a questo, che comunque resta un aspetto ammirevole della pellicola, l’atmosfera che si respira è sottilmente malsana con tutte quelle mosche svolazzanti e le mefistofeliche apparizioni del gatto nero di casa. Tutto ciò contribuisce a trasmettere la sensazione di continuo straniamento in cui versa Madeline accentuato dal progressivo abbassamento delle luci all’interno dell’abitazione.
Unica nota stonata è il bambolotto utilizzato come “stuntman”, davvero malfatto.
La tenacia e la totale devozione con cui la donna accudisce la propria figlioletta demoniaca mi hanno ricordato le vicende del meraviglioso Little Otik (2000). Se il film di Švankmajer è di un altro livello, anche questo di Solet ha un suo perché. Dategli una chance.
Fin dal titolo Solet cala l’opera in un contesto d’instabilità. Chiamare Grace (leggi Grazia) un bebè succhiasangue appare più come una condanna che un dono del cielo. Ed oltre ai nomi assegnati – non va dimenticato quello della protagonista in cui rimbombano echi religiosi – è doveroso sottolineare di come nel film sia presente una forte ambiguità nei rapporti famigliari, nonché in quelli sentimentali.
A partire dalla prima scena in cui Madeline fa l’amore con suo marito ma il suo viso sembra apatico, per proseguire con la storia saffica della stessa donna con la dottoressa, senza tralasciare la suocera Vivian che pare intendersela bene con un dottore, emerge abbastanza chiaramente un quadro generale in cui nessuno è moralmente in pace con se stesso, immergendo la vicenda già piuttosto “malata” in un’oscura pozza torbida dove le risposte salite a galla sono poche. E questo è un punto a favore del regista che lascia più di un qualcosa in sospeso senza sentirsi in dovere di spiegare (inutilmente) tutto per filo e per segno.
Un altro spunto di riflessione parecchio interessante è il parallelo che viene posto tra Madeline e sua suocera Vivian. In sostanza le due donne vivono entrambe un dramma materno; la differenza che intercorre tra il partorire una bimba-mostro ed il perdere il proprio figlio in un incidente stradale non sembra essere troppa. E così è apprezzabile lo sforzo del regista che cerca di isolare sempre più Madeline con la sua creatura, e di rendere la suocera sempre più bramosa nel voler sottrarre Grace a sua nuora per riacquistare la propria maternità.
Tali introspezioni rendono Grace un horror sui generis in cui si lascia più spazio all’immaginazione anche nelle scene potenzialmente splatterose. Oltre a questo, che comunque resta un aspetto ammirevole della pellicola, l’atmosfera che si respira è sottilmente malsana con tutte quelle mosche svolazzanti e le mefistofeliche apparizioni del gatto nero di casa. Tutto ciò contribuisce a trasmettere la sensazione di continuo straniamento in cui versa Madeline accentuato dal progressivo abbassamento delle luci all’interno dell’abitazione.
Unica nota stonata è il bambolotto utilizzato come “stuntman”, davvero malfatto.
La tenacia e la totale devozione con cui la donna accudisce la propria figlioletta demoniaca mi hanno ricordato le vicende del meraviglioso Little Otik (2000). Se il film di Švankmajer è di un altro livello, anche questo di Solet ha un suo perché. Dategli una chance.
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