martedì 11 maggio 2021

River of Grass

River of Grass (1994) è l’esordio di Kelly Reichardt, quindi: via subito di giochino tra differenze e similitudini col cinema che verrà, indubbio che vi siano cose che non vedremo più contrapposte ad altre che invece si svilupperanno a dovere. Tra le prime salta immediatamente all’occhio un’ambientazione lontana dall’Oregon (luogo di riprese prediletto) e perciò da tutte quelle sfumature che quei paesaggi sono capaci di trasmettere in favore di un’assolata area urbana nei pressi di Miami, sembra poco eppure di primo acchito si fatica davvero a riconoscere la visione della Reichardt in una zona cittadina, liminare e periferica come possono risultare i dintorni di Portland, ma fatta di cemento e asfalto. Inoltre nella costruzione narrativa la regista nata proprio in Florida, esattamente nei territori dell’opera in oggetto, si avvale di una sottile ironia che in seguito sarà completamente eliminata, garbatamente assistiamo a parentesi piuttosto leggere che riguardano la sotto-storia dello smarrimento di una pistola o la scenetta nel bagno del motel con la coppia (inverosimile [lui ha un qualcosa di Nick Cave], e quindi abbastanza divertente) alle prese con un insetto. C’è poco da dire, non ritroveremo mai situazioni simili nei successivi film della statunitense, al pari della massiccia presenza musicale.

Di contro assaporiamo ciò che sarà un motivo trainante del futuro: la fuga, il viaggio, lo spostamento, la transizione, è sempre stato nel movimento il nucleo concettuale dell’autrice (ad esclusione di due titoli recenti come Night Moves [2013] e Certain Women [2016] che non a caso erano parsi a chi scrive un po’ deboli) e in River of Grass ce ne viene dato un esempio in embrione, il fuggire del duo è rocambolesco e non tocca chissà quali vette esistenziali (pur provandoci stoicamente), però c’è, e sebbene limitato per vari motivi non è difficile scorgervi un parallelo che va oltre il lasciarsi dietro il presunto crimine commesso, è un’evasione dalla provincia, dall’ordinarietà quotidiana, dalla gabbia della routine e in questo sì che il film è decisamente reichardtiano, e lo è anche perché contempla un’introspezione intima della protagonista (prototipo dell’alter ego Michelle Williams) che con le sue riflessioni off colora la pellicola di tonalità che non sono solo quelle impresse dalla sceneggiatura, emerge lievemente un’estesa insoddisfazione, il senso che non si trova, la voglia di superare il confine (negativo: “girate la macchina e tornate da dove siete venuti”), la voglia di essere, chiunque: “meglio essere degli assassini che non essere niente”. Dettagli del genere oliano un debutto che come da prassi annovera aspetti da rivedere, rimane una buona base che una volta perfezionata diventerà la voce più importante di un mumblecore d’alto profilo.

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