Ha
stoffa Konstantina Kotzamani, lo sapevamo da prima con Pigs
(2011),
lo sappiamo ancora di più adesso con le precipue visioni di Limbo
(2016) [1] e Washingtonia
(2014), altra tappa di un viaggio autoriale per cui si attende con
grande speranza un lungometraggio di debutto, nel frattempo,
concentrandoci sul quinto corto della regista nata a Komotini,
una regione della Grecia limitrofa alla Bulgaria, si può annotare
uno stile che tange un certo cinema europeo che potrebbe far capo a
quel vecchio satanasso di Ulrich
Seidl
(come riportato dall’articolo biografico su Lo Specchio Scuro,
link) o anche, ma in modo meno evidente, a quello di Pedro Costa per
l’intenzione di voler ritrarre in un contesto occidentale elementi
così esotici. In realtà al di là di tali suggestioni (che non sono
finite, un ulteriore e più superficiale rimando è il primo
piano della giraffa che fa parecchio Bestiaire,
2012) quello che si profila è un cinema personalissimo equipaggiato
di un’estetica qualitativamente rimarchevole e di una forza
narrativa, subordinata all’impianto formale, che non è di
immediata assimilazione, ciò è un attributo che chi scrive giudica
positivamente e che rappresenta il fulcro del fare-Kotzamani. Ce lo
aveva già suggerito Pigs
con tutto il suo impatto visivo, l’autrice ellenica sa dare gli
input giusti allo spettatore senza che vi sia una consequenzialità
netta degli eventi, delle cose accadono, a volte in maniera
inconciliabile a volte no, eppure un flusso, un canale, un’energia
si crea comunque da dove è facile, nell’ossimoro di una
complessità a cui non si è mai preparati, captare la Visione piena,
quella che abbraccia i significati nascosti sotto un’eccellente
superficie.
In
Washingtonia la
strada è sghemba, dislocante: il narratore interno (un personaggio,
appunto, costiano) descrive in francese con dovizia naturalistica le
caratteristiche strutturali delle giraffe e delle palme, il set,
intensificato da caldi tramonti, ci trasmette un “senso d’Africa”
per poi virare sull’effettiva location greca del girato, inoltre
esseri umani a dir poco bizzarri si rapportano a fatica tra di loro,
madre e figlio, madre e cani: c’è, attraverso metodi e tempi
adeguati, un qualcosa dentro al film che mira alla profondità da una
posizione laterale, spostata di qualche metro, ed il risultato, che
palpita nella materia grigia spettatoriale, non lesina uno slancio
poetico evidenziato dalle varie recensioni in Rete: la Kotzamani,
sebbene sottotraccia, compie un parallelo interiore tra gli organi
vitali di tre regni esistenziali: animale, vegetale e umano dove il
muscolo cardiaco di ognuna di queste tre realtà è messo sotto
scacco da elementi superiori (l’afa estiva che non permette di
sentire il ritmo cardiaco della giraffa; il malefico punteruolo rosso
che punta al carnoso cuore delle palme; il disamore della mamma per
il proprio figliolo in favore di un amore... cinofilo), ciononostante
il battito non muore e nella scena gemella conclusiva possiamo udire
la pulsazione che si diffonde sullo schermo. Quale sia la necessità
di quanto appena interpretato (col beneficio del dubbio come ogni
esegesi che si rispetti), non saprei dirvi, a volte fa semplicemente
piacere che certi manufatti artistici esistano per ridestare
l’inessenziale stato di meraviglia che il cinema può stimolare.
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[1] L’ultima
immagine di Washingtonia con
la testa giraffesca che sbuca da fondo video sul cielo azzurro è
praticamente la prima di Limbo
con un cambio del soggetto ripreso.
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