Tipica,
nella sua deliziosa atipicità, opera prima proveniente dal
Sudamerica, precisamente dal Cile, che ci ricorda tanti altri film
passati su questi atri schermi, non faccio i nomi, è tutto qui, da
qualche parte, e anche Lucía (2010) è qui nel taschino dei
ricordi perché è un oggetto che ha le carte in regola per farsi
apprezzare in quanto esprime se stesso con una dignità e un contegno
che toccano certi tasti posti non proprio in superficie. Che poi la
storia è di quelle semplici semplici, abbiamo una figlia e un padre
che vivono insieme e che economicamente non se la passano bene, lei
lavora in una specie di sartoria, lui è forse pensionato o più
probabilmente disoccupato. Niles Atallah ci fa accedere nel loro
mondo attraverso piani fissi che disegnano l’umiltà dell’esistenza
che conducono, a tratti monotona, a tratti piatta. La casa,
attraverso la visuale del regista, si fa guscio che accoglie la donna
a fine giornata e, al contempo, catacomba disordinata immersa in
penombre dal sapore agrodolce, di una Fine che non c’è ancora ma
che incombe. Lucía non ci
dice nulla in modo diretto di Lucía, né di suo papà, piuttosto:
intuiamo grazie a sfumature, dettagli, elaborazioni mentali
post-visione. Parrebbe che nella quotidianità delle giornate la
donna abbia la speranza di un futuro diverso, che può essere una
casa nuova (per strada abbondano gli annunci immobiliari) o un nuovo
paio di occhiali, di contro l’uomo è arenato nel presente, se non
nel passato, e difatti gli occhiali nuovi non li usa, preferisce
quelli vecchi che utilizza per guardare cose vecchie
come la medesima telenovela di ogni santo giorno.
Atallah non
si accontenta però del ritrattino intimo (che già sarebbe
soddisfacente), è uno che, nonostante fosse agli esordi, dimostrava
già una discreta intemperanza e quindi piazza degli intermezzi in
stop-motion all’interno del girato. In queste scene è presente
sempre e soltanto Lucía e, a conti
fatti, non hanno un peso effettivo nella trama, ma, del resto, chi se
ne fotte della trama, per cui viva, ora e sempre, delle aperture del
genere che amplificano il fascio del sensibile e che forniscono
elementi chiari sullo status autoriale di Atallah il quale nel
susseguente (e formidabile) Rey
(2017) aumenterà gli strappi sull’irrazionale arrivando a picchi
d’intensità non trascurabili. Comunque, non è solo una questione
di scelte anticonvenzionali, c’è intelligenza anche nella sintassi
proposta, nell’associare per esempio due scene che nella loro inconciliabilità
fanno male. Nella prima, lunga e tutta ripresa con camera a mano,
padre & figlia si recano a casa di un dottore conoscente vestiti
da babbi natale per portare doni alla famiglia del medico, capiamo
che la sceneggiata voluta per i nipotini si ripete da anni e capiamo
anche che la realtà dei due protagonisti collide con quella
benestante in cui si ritrovano a distribuire regali a chiunque,
perfino alla cameriera, e la collisione, potente e inesorabile,
avviene nella sequenza successiva dove i due consumano la cena di
Natale nella cucina sgangherata della propria casa.
Dopodiché,
nel suo essere piccolo e ultimo, c’è il cinema: un’inquadratura
tsaiana descrive senza parole uno scorcio di solitudine che ha del
commovente, nell’immobilità del padre di cui scorgiamo i piedi
distesi sul letto, e di Lucía
che dietro la porta semi aperta ascolta le registrazioni di quando
era bambina, il Santo Natale si imbeve di tristezza. E non finisce
qua: poco dopo ancora il passo uno giunge a distorcere la “realtà”,
Atallah immette il sonoro esterno
(un frinire di grilli) nell’interno domestico, è spaesamento, è
la fine che arriva su una dissolvenza in nero, ma prima c’è
un’ultima cosa da vedere, due occhi lucidi prossimi al pianto.
si può vedere qui:
RispondiEliminahttps://vimeo.com/259478794
ciao