Si potrebbe,
anzi: si dovrebbe, bypassare a cuor leggerissimo un cortometraggio
come
O teleftaios fakiris (2005) per un motivo che riguarda
fondamentalmente il tempo, il nostro tempo buttato via dietro ad una
cosa minima, un lavoretto simil-studentesco che se non esistessero le
odierne piattaforme web sarebbe già sparito dalla circolazione,
però, nel caso in cui siate rimasti intrigati dal cinema ellenico
dell’ultimo decennio, potreste aver avuto l’idea di andare a
rintracciare quelle opere firmate da registi che di lì a poco
avrebbero generato la new wave greca. Purtroppo devo confessarvi che no, non è di sicuro una delle
idee più brillanti da mettere in pratica, prova ne è, a mio
parere, la terribile visione di
O kalyteros mou filos (2001)
del deus ex machina Lanthimos (un po’ meglio andò con Fit
[1994] di Athina Tsangari ma era una cosa diversa), se poi l’indagine
filologica in oggetto riguarda Babis Makridis il cui primogenito L
(2012) aveva già deluso parecchio le aspettative, allora non c’è
proprio la minima speranza per The Last Fakir.
La
storia è liberamente ispirata da un racconto di Luis
Sepúlveda
ed illustra come può le vicende di un impresario che si arrangia
alla bell’e
meglio organizzando spettacoletti con protagonista Ali Kazam,
l’ultimo fachiro. L’ironia che aleggia nella vicenda (l’unico
aspetto appena accettabile) è accompagnata da una confezione
scolastica di dozzinale fattura, la non pertinenza cronologica degli
eventi è un brodino che si manda giù perché il menù non offre
altro, il nodo della questione poi, ovvero la possibilità che il
fachiro abbia davvero dei poteri e che quindi a differenza del suo
manager non sia un impostore, è una sciocchezzuola che, da classica
tradizione narrativa, sfocia nel finale a sorpresa, conclusione che
tra l’altro dovrebbe divergere dal testo dello scrittore cileno. Detto ciò:
kalinýchta.
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