martedì 30 marzo 2021

Samui Song

Non così bene l’ultimo film di Pen-Ek Ratanaruang, Samui Song (2017) è un’opera dove convergono le varie anime del regista thailandese ma con un risultato globale privo di smalto: abbiamo un tema crime che stabilizza la storia su frequenze già affrontate in passato, vedi lo scoppiettante 6ixtynin9 (1999) di una vita fa o il più recente Headshot (2011), che qui si sostanziano nell’intrigo omicida tra un killer male in arnese e la sua mandante, una bella attrice televesiva che vuole eliminare il violento marito occidentale soggiogato da una pseudo-setta, e poi c’è una corrente relazionale, umana, che Ratanaruang indaga fin dai tempi di Last Life in the Universe (2003) e che ha avuto in Ploy (2007, lavoro tutto incentrato su una crisi coniugale) un vertice artistico. Anche in Samui Song, ovviamente, ci sono attente considerazioni sui legami sentimentali (già spezzati: Vi e Jerome non parlano nemmeno la stessa lingua) e sullo stato delle cose che riguardano la Thailandia di oggi in materia di “persone” (frecciatine al sistema sanitario, infelicità dell’upper class). La persistenza di un discorso autoriale non è però sinonimo di completa soddisfazione spettatoriale, il che sta a dire: non che il film in oggetto sia in toto da dimenticare è che, sicuramente almeno fino a quando l’azione non si sposta nella famigerata località turistica del titolo, la canzone di Pen-Ek non svetta per rapenti folgorazioni, parliamo di trametta, di un ginepraio neanche troppo impenetrabile.

Indubbio che la rivelazione conclusiva getti una luce differente sulla pellicola, c’è subito da dire che il supposto cambio di prospettive è ben lontano da essere un escamotage innovativo (penso che la lista di registi che si sono giocati una carta simile sia davvero lunga), tuttavia la scossa che somministra alla narrazione è tale da rimettere in discussione ciò che si è visto fino alla scena della fuga tra i boschi con il figlioletto. È plausibile che ad una riflessione ex post si possano rintracciare degli indizi che enucleino i confini dimensionali del veduto (laddove le due dimensioni non sono altro che Realtà & Finzione), ad esempio è riscontrabile di come Vi si lamenti di impersonare ruoli di poco spessore nelle soap-opere televisive ed ecco che invece con il plongée finale si suggella per lei il passaggio in un cinema maggiormente impegnato. Il confine tra fiction e non-fiction è pertanto precario e vivacizza la faccenda al punto di permettersi qualunque sterzata, anche ragguardevole, si veda la chiusura nella roulotte che è sostanzialmente la celebrazione dell’Attrice, la questione della plastica facciale appartiene alla sceneggiatura, per rientrare in sé basta tirare una riga di rossetto sullo specchio. Ciò può alimentare dubbi sulla figura del santone che sembra essere trasmigrato dal film al suo esterno (indossa anche gli stessi abiti), ma rientra nel gioco di Ratanaruang, dati da interpretare liberamente, per chi ne avrà voglia.

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