mercoledì 29 giugno 2016

Death of a Shadow

Elementi che potrebbero giocare a favore di Dood van een Schaduw (2012):

il meccanismo che sostanzia questo corto è sicuramente ingegnoso, il belga Tom Van Avermaet se l’è studiato bene lo script creando un rovello filmico che pesca in un certo immaginario distopico, più che altro si sente la presenza di un’idea concreta dietro, e un’idea è sempre un buon punto da cui partire (a patto che non diventi l’unico motivo portante dell’opera, ma se ne parlerà nell’ultimo paragrafetto). Gli intenditori che giudicano in base alla trama avranno di che gioire: un set-limbo vita/morte e un tizio mefistofelico che colleziona le ombre di chi sta per trapassare, il tutto lustrato per bene con una confezione che molti registi esordienti possono solo che sognarsi (Van Avermaet afferma che per la realizzazione del progetto ci sono voluti cinque anni e che un contributo importante lo ha fornito il denaro della regione francese della Champagne-Ardenne e indirettamente quello dato da una ditta del Belgio che produce cibo per animali [?] [link]), davvero: la componente tecnico-estetica è in linea con la professionalità del cinema da sala che andate a vedere, recitazione (il protagonista ha lavorato con Audiard e Guadagnino), scenografia (reminescenze di Gilliam), sceneggiatura (protesi di un mind-game preso a caso: Nolan?), insomma non siamo di sicuro nell’amatorialità. Ma capisco anche che a leggere suddetti riferimenti io stesso sarei il primo a parlare di elementi che giocano a sfavore: ma come, in un blog che cerca di guardare oltre si acclamano sbiadite miniature di modelli ritriti? Verissimo. Allora sposto subito l’attenzione su una riflessione che è fiorita durante la proiezione, anche se per il regista non è così importante, anzi potrebbe benissimo essere una classica sovraintepretazione dell'esegeta.

Le due figure principali del film mi hanno suggestionato in termini di parallelo, come se entrambi avessero le potenzialità per incarnare una tendenza che non definisco tanto moderna quanto insita nell’umano, che è quella dell’avidità materiale, della bramosia di possedere sempre di più e che qua si congiunge ad una sorta di macabro voyeurismo, para-necrofilia stilizzata (il visore retrofuturistico non rende Rijckx un pornografo della morte?). È limpido il fatto che Death of a Shadow non abbia minimamente le carte in regola per affrontare dignitosamente tematiche del genere, Van Avermaet è oltremodo impegnato a fare un film più per compiacersi nell’inquadramento normativo che per tentare lo scardinamento ammonente. Sono solo impressioni non si sa quanto legittime…

Elementi che indubitabilmente giocano a sfavore:

il fatto decisivo e senza appello alcuno è: Dood van een Schaduw è stato candidato all’Osca®. Se ne era già parlato sia per Instead of Abracadabra (2008) che per God of Love (2010), ad oggi, chiunque possegga un minimo di sensibilità verso il cinema non può che ritenere strabolitte le grammatiche che sostanziano i lavori orbitanti attorno l’industria dell’Academy. Perché anche il corto sotto esame ha una consistenza originale soltanto nel canovaccio in quanto l’idea portata avanti in tal modo viene come sterilizzata dalle logiche livellanti che imperano nella fruizione di massa, non per niente Van Avermaet viene risucchiato da quell’obbligo che assale molti suoi colleghi di dover raccontare una storia ad ogni costo, e se è una storia che pigia sul sentimentalismo ancora meglio. Così facendo noi non vediamo più un film, ma un’illustrazione, cioè la rappresentazione di un qualcos’altro che ci viene imposta dal regista di turno. Il cinema che intendo io invece lavora al contrario, è quella forma d’arte che attraverso una forza invisibile è capace di proiettare dentro di noi gli embrioni di un’eventuale rappresentazione, la quale una volta introiettata ha la probabilità di germinare, ma solo all’interno, nel profondo, nella sala-cervello. Questo significa esperire il cinema, tutto il resto è Death of a Shadow.

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