lunedì 7 maggio 2018

A Beautiful Day: You Were Never Really Here

Ritorna dopo sei anni di quasi silenzio (recuperate il gioiellino Swimmer [2012], ne vale la pena) l’apprezzata regista scozzese Lynne Ramsay, ed è un ritorno spiazzante perché You Were Never Really Here (2017) sembra un prodotto nettamente più appetibile se raffrontato ai lavori precedenti, anche al recente ...E ora parliamo di Kevin (2011) che già presentava una tenuta aperta a sguardi meno avvezzi all’autorialità pur facendo parte, senza dubbio alcuno, del grande calderone-cinema d’autore. Quest’ultima fatica presentata a Cannes ’17 dove ha vinto ben due premi, miglior attore per Joaquin Phoenix e miglior sceneggiatura a pari merito con Il sacrificio del cervo sacro (2017), è però indirizzata verso lidi maggiormente accondiscendenti, non così banali o scontati, sebbene l’ovvietà, nonostante il massiccio impiego di mezzi tecnici e accorgimenti retrospettivi, è una buca in cui inciampare è un attimo. La questione di fondo, rimarcata da parecchie altre recensioni sparse in Rete, è che YWNRH non ha una scrittura originale, il novero di pellicole accostabili è numeroso e lo lascio elencare ad altri, ma resta comunque un potenziale nonché antico problema: perché dobbiamo vedere qualcosa che abbiamo già visto? Le complicazioni non diminuiscono nemmeno se ci spostiamo sulle procedure di inscenamento, che la Ramsay avesse un particolare talento visivo era risaputo, che qui venisse soffocato da un’estesa spersonalizzazione non ce lo aspettavamo proprio, tanto per dire il prologo, complice anche un accompagnamento musicale synthtetico, pare un surrogato di Drive (2011), senza citare l’iconocità del martello come arma d’assalto che era già stata canonizzata da Park Chan-wook (ecco, alla fine un piccolo elenco ci è scappato, pardon).

A meno di casi estremi il recensore di turno riesce sempre a trovare qualche appiglio dove ricamare un complimento, quindi, visto che il sottoscritto ha un cuore di marzapane, anche per A Beautiful Day si possono spendere un paio di lodi relative alla gestione di alcune sequenze dove la regista si e ci ricorda di saper fare quello che fa: il blitz all’interno del bordello clandestino visto attraverso le telecamere di sicurezza è un bel concentrato di violenza e azione, idem per l’irruzione della polizia nella camera di Joe con il tizio (a proposito chi era?) che si becca una pallottola nel cranio in un amen, e poi il bel funerale subacqueo dalla pregiata confezione che ricorda il finale di Ratcatcher (1999, e anche questo andate a recuperarlo). Sono comunque lampi che non riescono a tamponare una crescente insoddisfazione, se a mente fredda ragioniamo sulla struttura del film ci rendiamo conto di quanto sia fondamentalmente basica, oserei dire povera se non fosse per la massiccia dose di flashback che però, non me ne voglia la Ramsay, agitano al massimo le acque della narrazione e nient’altro. Il Joe che vediamo, un Phoenix al solito catalizzatore della proiezione ormai al di sopra delle parti, non interpreta più nessuno se non stesso, o almeno l’idea che ci ha trasmesso di lui (curiosa l’assonanza titolistica con Joaquin Phoenix - Io sono qui!, 2010), è un uomo vessato da drammatici eventi del passato (mitragliati di tanto in tanto sullo schermo) che lo perseguitano durante il lavoro di sicario, discreta adrenalina e accensione del pulsante-curiosità, tuttavia non si va granché oltre, a tal proposito è sintomatico il finale nella villa che suggerisce esplicitamente una rappresentazione mentale delle turbe insite nell’ex militare, l’allestimento celebrale risulta però piuttosto scarico e non regala alcunché di memorabile.

Mi ha fatto sorridere un lapidario commento postato da un utente di IMDb: “boring and over-artsy. You wait for some type of plot to start, but its really just a guy walking around in his head.” È irrispettoso bollare in due righe un lavoro che avrà coinvolto un’elevata quantità di professionisti e di denaro, ma se fossi in Lynne Ramsay penserei un minimo alle ultime parole della stringata bocciatura. Perché ciò che doveva essere il quid pluris dell’intera faccenda, ovvero la fusione tra dimensione psicologica e una visione artistica coniugata alla brutalità realistica non arriva a destinazione finendo a tratti per avallare una specie di imborghesimento del cinema di genere? Attendiamo smaniosi una risposta.

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