La confezione disorienta
un attimo, Louder Than Bombs (2015), comunque, è un
film americano, il che ci obbliga a rapportarci con una smaccata
ostensione attoriale e con un’atmosfera (se così può
definirsi) che ovviamente nei due film precedenti di Joachim Trier
non erano presenti. Il contesto è dunque dipinto a stelle e
strisce, un “colore” che, e sfido chiunque a dire il contrario,
non c’è bisogno di vedere in altri spazi che non siano
quelli televisivi. Ma prima di dare dell’allineato a Trier, bisogna
accendere l’interruttore celebrale ed ammettere che la sortita
oltreoceano ha una coerenza davvero forte all’interno della sua
filmografia, e questo depone già a suo favore poiché
registriamo un discorso che sembra stratificarsi esemplare dopo
esemplare. Partiti con Reprise (2006) dove venivano gettati i
semi di un malessere che troveranno fioritura e immediato
appassimento con Oslo, August 31st (2011), in Segreti di
famiglia il ruolo della Huppert appare la prosecuzione
fantasmatica del suo predecessore: lo stesso gesto (o così ci
viene fatto intendere) li accomuna, la stessa velata insoddisfazione,
i medesimi scampoli di una vita che sarebbe e avrebbe dovuto essere
più felice. Constata una continuità filmica, basta poco
per sconfessare l’idea di trovarci di fronte ad un prodotto
esclusivamente da botteghino, certo, permangono delle situazioni un
po’ troppo patinate (l’incidente potrebbe quasi entrare in un
qualunque blockbuster), ma Trier è bravo nel rendere la
narrazione un flusso che vive più di rimbalzi che di
sequenzialità, come se l’intenzione fosse stata quella di
puntare sì all’introspezione psicologica ma servendosi
dell’irregolarità dei ricordi, della loro luce effimera,
pulsante e al contempo fievole, instabile.
Film sulla virtualità
dei rapporti umani (ritratti nel divertente siparietto degli avatar
tra padre e figlio) e sulle difficoltà dei legami
consanguinei: ogni personaggio in scena ha un’esistenza sofferta,
devastata per motivi apparentemente diversi eppure concretamente
uguali: tutto va ricondotto alla grande assente/presente madre
fotografa, una donna che si nutriva del dolore altrui senza però
riuscire a combattere il proprio. Il Dolore, per chi scrive, è
il vero protagonista dell’opera, un male borghese, elitario,
trasmigrato nei corpi e nei cuori dei superstiti della famiglia. A
questo punto sembra profilarsi una sommossa di Trier al cinema
americano poiché il norvegese vestendo l’opera di un abito
chic e guadagnandosi così una maggiore distribuzione, sotto la
superficie dissemina cadaveri a cui magari il pubblico dormiente non
è abituato. Perché Segreti di famiglia ha
un’intelligenza propria, un valore interrogante, una scrittura non
banale dove anche la figura del “solito” ragazzino introverso
(c’è un che di ...E ora parliamo di Kevin [2011] e
casualmente il fratello maggiore chiederà a quello minore se
per caso non abbia intenzione di fare una strage a scuola) assume
sfumature fresche ed empatiche (il rivolo di urina dell’amata e
l’immediata commozione: per il realizzarsi del “contatto” o per
il ricordo della mamma?), e dove in generale l’aura del non-detto
impreziosisce la struttura globale in cui alla fine emerge anche un
filo di resurrezione: è il padre a guidare quell’automobile
verso il futuro, così come in apertura è la manina del
neonato ad aggrapparsi a quella del papà.
Ignobile, più del
solito, la traduzione italiana del titolo perché oltre al ridicolo
tentativo di suggerire una sorta di mistero attorno ai vari
protagonisti, finisce per divenire l’omonimo del film di Coppola
del 2009. Che pena.
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