martedì 5 luglio 2016

Din of Celestial Birds

Avvistato già molti anni fa con Begotten (1990), il cinema di Edmund Elias Merhige non sembra essere troppo cambiato ventisei anni dopo (ma c’è stato spazio anche per la sala: L’ombra del vampiro, 2000), Din of Celestial Birds (2006) prosegue infatti sulla scia del suo predecessore istituendosi in un lavoro di ostinata astrazione dove la manipolazione in fase di editing plasma quello che è un trip senza possibilità di ritorno: Merhige è un’alchimista, Merhige è un pusher, Merhige è un chirurgo che vuole farci entrare nelle oleose pieghe del nostro cervello. All’inizio dice: “non abbiate paura, ricordate le nostre origini”, difficile arrivare alla cosmogonia in dieci minuti di caos ottico, ma lo stato ipnotico che aleggia per tutta la durata induce ad una trance visiva implementata da ritmati suoni industriali, e mentre vi assistevo un altro film si è spalancato dietro al corpo vitreo dei miei occhi:

INCARNAZIONI DI BAMBINI MAI NATI

E il suo ano era una stella, e la sua vagina una caverna. E io, la proiezione fantasmatica di me stesso, ancora non-io, eppure io, ero pronto a fare me, o te, ma ancora non sapevo, quanta vita c’era da morire! Allora mi chiedo: che cosa c’è in fondo al lago Vostok? Io ho visto, ho visto! Sono arrivato lì soffiato da un’aurora polare, dondolato e poi spinto sotto le lastre ghiacciate, attraverso i mammut ibernati da millenni, fino all’acqua tiepida e accogliente, ed è stato come essere cullati tra le braccia di quella che chiameremo Madre, lì dove antichissimi esseri acquatici con una lunga barba di cotone nuotano placidi e sereni con il loro cervello che brilla sotto un cranio sottile e trasparente i cui pensieri sono leggibili a tutti e tutti pensano ai propri fratelli abbandonati sul pianeta Europa una distanza inconcepibile di tempo fa, proprio lì dove un altro piccolo sole sorge ogni notte, il profeta Elias è disceso dalla volta eburnea sul dorso peloso di un’enorme falena e avvicinandosi alla mia inconsistenza ha donato a non-me un’impolverata VHS con sopra scritto “Din of Celestial Birds”, e nel momento in cui la toccai: aiuto. Iniziai la salita poderosa, diventai un tappo che salta, su, di nuovo, per gli strati di ghiaccio ad una velocità sonica: il bianco, la luce, un fischio, il nulla, poi: il suo ano era una stella, e la sua vagina una caverna.

Nostro figlio giace immobile vicino a noi ricoperto di sangue e materia organica, gli occhi senza pupille, la bocca sdentata, il corpo macchiato da rosse chiazze. Io dico: “non avere paura”. Lui dice: “”.

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