domenica 17 luglio 2016

The Devil's Ballroom

Una distesa di neve e ghiaccio. Poi un uomo, intabarrato.

Corto norvegese che si propone con brevità di enucleare da un altro punto di vista una delle peculiarità più rilevanti nella Storia della Norvegia, ovvero la tendenza, fin dagli albori, all’esplorazione delle impervie zone circostanti [1], facendo così dei vichinghi o di Roald Amundsen spavaldi avventurieri più forti delle indicibili tormente che dovettero fronteggiare, diventando poi delle vere e proprie icone eroiche immarcescibili (e le ultime immagini di Mannen fra isødet [2012] ci dicono questo: la museificazione di sé come atto di assoluto narcisismo). Eppure Dahlsbakken tenta di rovesciare l’assioma del prode viaggiatore raccontandoci la plausibilità di un evento che non finirà mai negli annali, succede questo (e sicuramente sarà successo): il dio si disdivina, l’uomo circondato dall’accecante candore cede alla propria brama di fama e di potere. Praticamente è quello che salta periodicamente fuori dal mondo della politica, circo di sciacalli in giacca e cravatta, come qui: l’osannato che nasconde un segreto non rivelabile (la porta si chiude al nostro sguardo, abbiamo visto la macchiolina sulla diapositiva!), il fine raggiunto con mezzi molto deprecabili. E quindi nel suo piccolo The Devil’s Ballroom arriva a mostrarci una traslitterazione figurativa che va oltre l’omino disperso al Polo Nord tutto tronfio per l’impresa compiuta a scapito di una povera innocente, è un monito, una narrazione che si apre e si inquadra nella contemporaneità, quella insulsa dei titoloni sui giornali.

Esagero? Un po’ sì. Al lavoro di Dahlsbakken mancano ancora le necessarie qualità per potersi elevare davvero in un campo superiore, e il motivo, come sempre, è dato dal metodo perché il regista, e lo confermerà coi lavori successivi che almeno sulla carta appaiono piuttosto allineati al mercato mainstream, pur operando in modo encomiabile impagina il film in un taglio non abbastanza “artistico”. Non vuole essere un discorso snobistico, il punto è che un occhio come il mio, e come il tuo che adesso sta leggendo, ha la necessità di stili altri, di grammatiche innovatrici, di collisioni, ecc. Il cosiddetto compitino, la massima del senzainfamiasenzalode, rischia di portare al deprezzamento del manufatto: se la forma tentenna anche il contenuto precipita nell’incaglio.
Che banalità vado ad asserire, yawn.
__________
[1] L’occasione è ghiotta per consigliare la lettura de La camicia di ghiaccio (Alet Edizioni, 2007) di William T. Vollmann. Primo tassello di un monumento letterario che ha come obiettivo quello di costruire la storia di un Paese che non ha Storia: l’America.

Nessun commento:

Posta un commento