Il parallelo che si profila per Dante è incentrato tra la città e le persone che l’hanno abitata, la connessione designata tra le due entità vede per entrambe un concetto di ricostruzione che è sì attuabile e che, negli anni successivi al sisma si è parzialmente messa in moto, ma che comunque deve fronteggiare difficoltà non da poco, che possono essere la collusa burocrazia italiana al pari di un’idea di futuro divergente tra i componenti di una coppia. In pratica il regista assembla pezzi di vite di ragazzi a lui coetanei che conobbe un lustro prima nelle tendopoli allestite per gli sfollati, sono storie di uomini e di donne alle prese con le proprie macerie, con una riedificazione psicologica e professionale (non c’è stabilità emotiva senza stabilità economica) tutta in salita, con ciò che se ne è andato (Noemi, un nome, una dedica), che è rimasto (un legame, tra alti e bassi), che è arrivato (una figlia). Accompagnato da un commento dell’autore per nulla banale, ragionato sì, ma anche di pancia, malinconico, cupo, incazzato, speranzoso, in una parola: vivo, il film è una nicchia di resistenze scampate ad un collasso impossibile da comprendere appieno per noi esterni di cui porteranno per sempre delle scorie, è un puzzle di potenziali ricominciamenti che devono mettere in conto il verificarsi di una serie di assenze, anche e soprattutto materiali, a partire da una casa, la propria e non un surrogato, oltre al denaro e alla culla che per tanto tempo è stata la loro vita: L’Aquila, ed è anche un contenitore di riflessioni trasversali generato da un artista che cerca di metabolizzare la catastrofe filtrandola tra le maglie del cinema, e credo che alla fine, con sincerità, sensibilità e un pizzico di inventiva ci sia riuscito.
The Son
2 ore fa
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