martedì 25 gennaio 2022

Kokoduna 19-ji

Di Kokoduna 19-ji (2020) c’è una recensione italiana ultra-positiva consultabile qui che, a prescindere dal suo essere condivisibile o meno (per la cronaca: io con tutta la buona volontà non riuscirei mai a dare 9 ad un oggetto del genere), mi ha fatto porre un quesito che Zerocalcare definirebbe devastante: ha ancora un senso, oggi, il cinema di Sion Sono? Eh no perché adesso potremmo anche metterci a trovare tutti i collegamenti del mondo all’interno della sua filmografia, i richiami tematici, le continuità stilistiche ma... ne vale la pena? È da parecchio tempo, praticamente da Why Don’t You Play in Hell? (2013) in avanti, che le produzioni del giapponese si sono fatte tanto frequenti quanto qualitativamente mediocri e alla fine, spogliandoli delle sue bizzarrie e dell’energia schizzoide che solitamente imperversa, i film di Sono mi sono finiti per apparire vecchi, vecchi e ancora vecchi. Anche questo The Lonely 19:00 non fa eccezione, e non la fa pur occupandosi del nostro presente, ovvero della pandemia globale, però, come si usa dire, c’è modo e modo, ed il modo di Sion è ormai un qualcosa che proprio non riesco a digerire, la scelta di girare opere low-budget è divenuta una fastidiosa routine, che poi per un piccolo esemplare come quello sotto esame ci potrebbe anche stare, è sicuramente peggio quando in un lungometraggio si percepisce una certa ristrettezza economica (e gli esempi fioccano), tuttavia preferisco impegnarmi con prodotti sostenuti da maggiore professionalità, ed è un discorso a 360°, non è (solo) per il digitale scadente o per degli accorgimenti tecnici modesti, è piuttosto una preoccupante assenza di ciò che fa da benzina all’arte in generale: a me pare che Sono non abbia più idee, e il non avere idee è molto triste, soprattutto se lo spettatore sei tu.

Spiace constatarlo ma ho trovato l’intero Kokoduna 19-ji veramente ingenuo, quasi come se recasse la firma di un esordiente e non quella di un cineasta dal cv chilometrico. Alla base non ci ho visto nulla di interessante nella metafora semi-distopica ivi imbastita, se l’intento era di fornire uno strumento per aiutarci ad analizzare meglio i fatti che stiamo vivendo dal 2020, a parte una sequela di banalità ammetto con candore di non aver rintracciato nient’altro. Le premesse (un’umanità ridotta ad un lockdown perenne a causa di un virus più potente della [sì, al femminile] COVID-19) hanno uno sviluppo prevedibile (oh: il protagonista dopo trent’anni esce dal confinamento) ed un sottotesto fiacco attraverso il quale viene suggerito che la distanza coatta non è la maniera giusta per vivere perché d’altronde “vivere non basta”, bisogna aiutarsi a vicenda, sorreggersi, baciarsi, ecc. No, dal mio punto di vista non può essere questo l’approccio giusto per affrontare il più grande problema in epoca moderna su scala mondiale di cui ho memoria, non con la superficialità e l’approssimazione messe in campo da Sono al quale ricordo umilmente che non è più il giovane filmmaker di Ore wa Sono Sion da! (1985) che riprendeva ciò che aveva intorno alla ricerca di un’identità personale, adesso è un uomo e una voce del panorama contemporaneo, non vogliamo favolette, vogliamo manifestazioni scomode, interroganti, vive. Il minimo è Citadel (2021), il resto deve ascendere.

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