
Di Kokoduna 19-ji
(2020) c’è una recensione italiana ultra-positiva consultabile qui
che, a prescindere dal suo essere condivisibile o meno (per la
cronaca: io con tutta la buona volontà non riuscirei mai a dare 9 ad
un oggetto del genere), mi ha fatto porre un quesito che Zerocalcare
definirebbe devastante:
ha ancora un senso, oggi, il cinema di Sion Sono? Eh no perché
adesso potremmo anche metterci a trovare tutti i collegamenti del
mondo all’interno della sua filmografia, i richiami tematici, le
continuità stilistiche ma... ne vale la pena? È da parecchio tempo,
praticamente da Why Don’t You Play in Hell?
(2013) in avanti, che le produzioni del giapponese si sono fatte
tanto frequenti quanto qualitativamente mediocri e alla fine,
spogliandoli delle sue bizzarrie e dell’energia schizzoide che
solitamente imperversa, i film di Sono mi sono finiti per apparire
vecchi, vecchi e ancora vecchi. Anche questo The Lonely
19:00 non fa eccezione, e non la
fa pur occupandosi del nostro presente, ovvero della pandemia
globale, però, come si usa dire, c’è modo e modo, ed il modo di
Sion è ormai un qualcosa che proprio non riesco a digerire, la
scelta di girare opere low-budget è divenuta una fastidiosa routine,
che poi per un piccolo esemplare come quello sotto esame ci potrebbe
anche stare, è sicuramente peggio quando in un lungometraggio si
percepisce una certa ristrettezza economica (e gli esempi fioccano),
tuttavia preferisco impegnarmi con prodotti sostenuti da maggiore
professionalità, ed è un discorso a 360°, non è (solo) per il
digitale scadente o per degli accorgimenti tecnici modesti, è
piuttosto una preoccupante assenza di ciò che fa da benzina all’arte
in generale: a me pare che Sono non abbia più idee, e il non avere
idee è molto triste, soprattutto se lo spettatore sei tu.
Spiace
constatarlo ma ho trovato l’intero Kokoduna 19-ji veramente
ingenuo, quasi come se recasse la firma di un esordiente e non quella
di un cineasta dal cv chilometrico. Alla base non ci ho visto nulla
di interessante nella metafora semi-distopica ivi imbastita, se
l’intento era di fornire uno strumento per aiutarci ad analizzare
meglio i fatti che stiamo vivendo dal 2020, a parte una sequela di
banalità ammetto con candore di non aver rintracciato nient’altro.
Le premesse (un’umanità ridotta ad un lockdown perenne a causa di
un virus più potente della [sì, al femminile] COVID-19) hanno uno
sviluppo prevedibile (oh: il protagonista dopo trent’anni esce dal
confinamento) ed un sottotesto fiacco attraverso il quale viene
suggerito che la distanza coatta non è la maniera giusta per vivere
perché d’altronde “vivere non basta”, bisogna aiutarsi a
vicenda, sorreggersi, baciarsi, ecc. No, dal mio punto di vista non
può essere questo l’approccio giusto per affrontare il più grande
problema in epoca moderna su scala mondiale di cui ho memoria, non
con la superficialità e l’approssimazione messe in campo da Sono
al quale ricordo umilmente che non è più il giovane filmmaker di
Ore wa Sono Sion da! (1985) che riprendeva ciò che aveva intorno
alla ricerca di un’identità personale, adesso è un uomo e una
voce del panorama contemporaneo, non vogliamo favolette, vogliamo
manifestazioni scomode, interroganti, vive. Il minimo è Citadel
(2021), il resto deve ascendere.
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