Micidiale il meccanismo
che sorregge The Act of Killing (2012): penetrare all’interno degli
ingranaggi dell’attuale società indonesiana e della sua
storia recente utilizzando come grimaldello silenzioso il cinema.
Andiamo per gradi: Joshua Oppenheimer, americano di nascita
stabilitosi in Indonesia dal 2004, inizia a lavorare presso Medan,
grossa città non distante da Sumatra, in una comunità
di sopravvissuti allo sterminio comunista del ’65, qui comincia a
sentire storie tremende a proposito dei parenti (tutti uccisi) di
queste persone, incuriosito cerca di approfondire l’argomento ma si
scontra con una reticenza figlia di un terrore, di un vero e proprio
terrorismo impunito, così gli vengono suggerite le seguenti
parole: “lo sai, l’altra cosa che puoi fare è filmare gli
assassini” (fonte). Gli assassini: uno stuolo di malavitosi ormai
attempati legati al gruppo paramilitare Pancasila Youth che
contribuirono alla salita al potere di Suharto attraverso una caccia
spietata nei confronti degli oppositori politici (comunisti, o
presunti tali) arrivando ad uccidere migliaia e migliaia di esseri
umani. La proposta di Oppenheimer, aiutato dalla collaboratrice
Christine Cynn e da un collettivo di tecnici locali accreditati come
“anonimo”, è a prova di idiota: chiedere ai gangster, in
occasione della ricorrenza delle loro malefatte, di reinterpretare in
un film le loro gesta, assumendo alternativamente il ruolo dei
carnefici e quello delle vittime.
La finestra che
Oppenheimer apre si affaccia su un baratro profondissimo, una gola
nera dove il presente ha eroicizzato i sicari. In preda a quello che
appare come un delirio collettivo, Anwars Congo e soci vengono
idolatrati pubblicamente e perfino invitati in televisione per
discutere tronfiamente della realizzazione del progetto in cui sono
coinvolti, e loro, immarcescibili e privi di rimorso (o quasi), si
cullano sulle proprie imprese che ri-perpetrate e ri-viste nel
salotto di casa diventano l’occasione giusta per mostrare ai
nipotini quanto era bravo il nonno; il gesto brutale, mitizzato dalla
telecamera (addirittura un “morto” ringrazia il killer di averlo
ucciso!), diviene simulacro storico, l’esaltazione dell’orrore,
della prevaricazione, della violenza, illumina il lato oscuro della
Storia evenemenziale
indonesiana, le riproduzioni da b-movie di pessimo rango non sono
altro che inconsapevoli confessioni, boomerang che ritornano
brutalmente al mittente. Il
lavoro di Oppenheimer si carica di un duplice ruolo
perché riesce a smontare il sistema criminale in modo pacifico
grazie all’accondiscendenza dei diretti interessati, giocando
d’astuzia e facendo leva sull’ego di chi non conosce il
significato della parola umanità, e parallelamente scrive un
magistrale trattato documentaristico che sonda in totale libertà
gli antipodi del cinema, realtà e finzione, opponendoli e
sovrapponendoli, attualizzando l’oscuro passato tramite un’azione
di denuncia e di teoria.
E
il cinema, in modo sorprendente, si erge come ultimo baluardo di
un’etica per l’uomo poiché è grazie ad esso
che i gangster, per la prima volta dai tempi delle efferatezze, si
pongono dei quesiti di ordine morale, come se il rivedersi nei panni
di spietati assassini smuovesse la loro coscienza dormiente, al punto
che Congo, impossibilitato a proseguire la rappresentazione di un
omicidio, si ritrova sul luogo dei delitti a rigurgitare una matassa
che, a sua insaputa, si annidava dentro di lui da molto tempo.
Molto curioso di vederlo. Grazie per la recensione
RispondiEliminaAccludo il parere sempre autorevole di Giulio Sangiorgio, per chi fosse indeciso.
RispondiEliminahttp://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4702
Sembra molto interessante. Sai se ci sono sottotitoli in italiano in giro?
RispondiEliminaPer adesso no.
RispondiEliminaqualora verranno rilasciati sottotitoli potete mettere un link per favore?
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