A causa di alcuni intoppi
burocratici la piccola di casa non può seguire la sua famiglia
in partenza per l’Africa. Ad accudirla giunge una zia parecchio
scapestrata.
Un occhio al titolo:
“flickan” in svedese significa “ragazza”, constatazione
banale vista la fedele traduzione fatta col titolo inglese, ma, a
meno che in Svezia tale lemma possegga un altro nocciolo semantico,
qui di ragazze non ce ne sono, decisamente: la protagonista senza
nome non ha neanche dieci anni, ha tratti fisici acerbi ed informi, e
sogna degli altrove appiccicando ritagli e fotografie in un
angolino tutto suo. Ergo: il debuttante Fredrik Edfeldt suggerisce le
intenzioni attribuendo alla sua creatura non il nome di ciò
che è ma di ciò che sarà. Sì, The Girl
(2009) è cinema della crescita, branca inflazionata da luoghi
comuni che rischiano sempre di scivolare nel ritrito, cosa che in
questo film, soprattutto quando si concentra nell’illustrazione dei
pari età, purtroppo accade: il contrapporre due ochette tutte
attente agli abiti e al trucco alla più introversa
protagonista è un’operazione lapalissiana che una volta
messa in atto genera situazioni elementari come l’avvicinamento tra
la ragazzina e il compagno di (dis)avventure. È questo
meccanismo scoperto a non far elevare la pellicola da un mood
giffoniano (senza offesa) dove anche le infiltrazioni drammatiche si
disperdono in un tessuto a cui non interessa impattarsi con lo
spettatore, si tiene leggero, svolazza in altre categorie tipo la
commedia senza attecchire davvero alle esigenze pre-visione così
riassumibili: per favore, non un altro ritratto dell’infanzia
costituito da genitori assenti (in tutti i sensi) e coetanei perfidi.
In questo percorso
guidato Edfeldt ritorna continuamente a sottolineare l’inefficienza
del mondo adulto che non appare un modello a cui tendere. Tutti i
“grandi” presenti nella storia non hanno comportamenti
propriamente irreprensibili, a cominciare dai genitori che partono
per una sorta di missione umanitaria lasciando però la loro in
figlia nelle mani di una zia oltremodo incosciente, senza dimenticare
il vicino di casa che non disdegna la bottiglia, o all’insegnate di
nuoto che mostrando il suo fisico nudo e decadente infligge un
promemoria estetico alla Nostra. Il tragitto formativo è
costellato da siffatte punteggiature che creano un contrasto
generazionale sì e no riuscito tale da rendere questo aspetto
l’unico sufficientemente rifinito di tutta l’opera, peccato però
che il regista accosti a tale discorso parentesi metaforiche
indebolenti che rivelano una banalità di fondo immedicabile,
l’insistenza sul salto come gesto di crescita personale fa parte
del citato insieme figurativo, ma questa, come la rana che scappa
dalla scatola e perfino quella stravagante della mongolfiera, sono
tutte immagini che arrivano subito come subito arriva ciò che
vorrebbero nascondere. Va bene affidarsi alle simbologie per impepare
la messa in scena, a patto però che siano tali e che non si
riducano a didascalie con velleità comprovanti, ed un po’
ciò che accade con il titolo stesso: Edfeldt mette sul piatto
la fine del processo, siamo però sicuri che la certificazione
avvenga con lo sguardo sfuggente della piccola di fronte allo
specchio? Negli avvenimenti precedenti i dubbi si insinuano e lì
si sedimentano.
Ambientato all’inizio
degli anni ’80 in una splendida campagna svedese, spicca con tutta
la naturalezza di una bambina la deliziosa interpretazione di Blanca
Engström per la prima volta di fronte ad una cinepresa.
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