lunedì 2 gennaio 2017

The Room

Scorrazzando lungo la filmografia di Sion Sono appare chiaro che prima della trilogia suicida era un altro Sono. Non completamente diverso perché abbiamo visto di come in alcune sue opere giovanili ci fosse una torrenzialità non troppo divergente da un Cold Fish (2010) qualunque (si prenda in esempio Jitensha toiki [1990] o Utsushimi [2000]), al contempo però il regista giapponese aveva stupito con un film agli antipodi del suo stile dimostrando un’inaspettata voglia di ricerca (Keiko desu kedo, 1997), ebbene Heya (1993) sposa la causa del Sono minimalista poiché ci troviamo al cospetto di un lavoro realmente asciutto con un taglio oserei dire europeo che opera nella sottrazione, tutte le componenti filmiche tendono ad uno zero assoluto, non è pervenuta la straripanza attoriale che lo caratterizzerà in futuro né l’esondante fluire tramico; attuando questa radicalizzazione Sono affida ogni possibile senso al cuore del cinema: l’immagine, e, senza esagerare in lirismo, è un cuore che batte, nel senso che funziona poiché il senso va proprio a situarsi lì, nella particella elementare della settima arte. The Room è un film dell’immagine e lo ostenta con coraggio fin da subito usando pressoché esclusivamente piani fissi e dilatando in maniera inconsueta i tempi di ripresa; nel procrastinare lo stacco da una scena all’altra si crea un oggetto formato da tante piccole espansioni, forse superflue ma comunque capaci di dare uno spessore non da poco alla pellicola.

E comunque Heya a prescindere dalle sue tempistiche ha per quasi un’ora una struttura molto rigida che facendo uso della ripetizione va a costituirsi in una sorda musicalità composta da simili e diversi elementi (il tragitto in metro – la visita della casa – di nuovo la metro – di nuovo la casa), il ritmo ipnotico è interrotto da Sono con l’unico flashback del film, è un salto all’indietro rivelatore che denuda il misterioso uomo e che stupisce per l’austerità con cui ci viene proposto (un sicario nel bel mezzo delle sue malefatte come sarebbe stato esposto dal Signore del Caos vent’anni dopo?), da qui il film si solleva palesando nel prosieguo il suo nucleo elegiaco. Può essere visto in quest’ottica il peregrinare del killer da un appartamento all’altro, come se la ragazza-Caronte traghettasse il carnefice nel luogo prescelto per il trapasso, sicché senza accorgercene neanche in appena novanta minuti ci viene data la possibilità di guadare lo spazio-cinema/vita da una sponda all’altra, e nell’arrivo si constata un’apertura esistenziale. Se preso singolarmente è probabile che The Room non susciti una particolare ammirazione, ma perché limitarsi a ciò? Un tassello del genere se incollato nel mosaico sononiano acquista un valore più alto, e Sono stesso, nonostante fosse agli inizi della carriera, manifestava già un tocco e un’idea da professionista.

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