Scorrazzando lungo la
filmografia di Sion Sono appare chiaro che prima della trilogia
suicida era un altro Sono. Non completamente diverso perché
abbiamo visto di come in alcune sue opere giovanili ci fosse una
torrenzialità non troppo divergente da un Cold Fish
(2010) qualunque (si prenda in esempio Jitensha toiki [1990] o
Utsushimi [2000]), al contempo però il regista
giapponese aveva stupito con un film agli antipodi del suo stile
dimostrando un’inaspettata voglia di ricerca (Keiko desu kedo,
1997), ebbene Heya (1993) sposa la causa del Sono minimalista
poiché ci troviamo al cospetto di un lavoro realmente asciutto
con un taglio oserei dire europeo che opera nella sottrazione, tutte
le componenti filmiche tendono ad uno zero assoluto, non è
pervenuta la straripanza attoriale che lo caratterizzerà in
futuro né l’esondante fluire tramico; attuando questa
radicalizzazione Sono affida ogni possibile senso al cuore del
cinema: l’immagine, e, senza esagerare in lirismo, è un
cuore che batte, nel senso che funziona poiché il senso va
proprio a situarsi lì, nella particella elementare della
settima arte. The Room è un film dell’immagine e lo
ostenta con coraggio fin da subito usando pressoché
esclusivamente piani fissi e dilatando in maniera inconsueta i tempi
di ripresa; nel procrastinare lo stacco da una scena all’altra si
crea un oggetto formato da tante piccole espansioni, forse superflue
ma comunque capaci di dare uno spessore non da poco alla pellicola.
E comunque Heya a
prescindere dalle sue tempistiche ha per quasi un’ora una struttura
molto rigida che facendo uso della ripetizione va a costituirsi in
una sorda musicalità composta da simili e diversi elementi (il
tragitto in metro – la visita della casa – di nuovo la metro –
di nuovo la casa), il ritmo ipnotico è interrotto da Sono con
l’unico flashback del film, è un salto all’indietro
rivelatore che denuda il misterioso uomo e che stupisce per
l’austerità con cui ci viene proposto (un sicario nel bel
mezzo delle sue malefatte come sarebbe stato esposto dal Signore del
Caos vent’anni dopo?), da qui il film si solleva palesando nel
prosieguo il suo nucleo elegiaco. Può essere visto in
quest’ottica il peregrinare del killer da un appartamento
all’altro, come se la ragazza-Caronte traghettasse il carnefice nel
luogo prescelto per il trapasso, sicché senza accorgercene
neanche in appena novanta minuti ci viene data la possibilità
di guadare lo spazio-cinema/vita da una sponda all’altra, e
nell’arrivo si constata un’apertura esistenziale. Se preso
singolarmente è probabile che The Room non susciti una
particolare ammirazione, ma perché limitarsi a ciò? Un
tassello del genere se incollato nel mosaico sononiano acquista un
valore più alto, e Sono stesso, nonostante fosse agli inizi
della carriera, manifestava già un tocco e un’idea da
professionista.
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