Essenzialmente
The Itching (2016) si fonda su un piccolo paradosso:
nell’illustrazione antropomorfa degli animali colui che in natura è
universalmente riconosciuto come un predatore, il lupo, è invece qui
una remissiva lupetta che tenta dei timidi approcci con i compagni
faunistici i quali, a dispetto della loro concreta condizione di
prede, i conigli, per Dianne Bellino sono dei festaioli che sniffano
e ballano tra i boschi. L’innesco del corto si genera dunque dalla
protagonista che cerca di instaurare un rapporto, anche frivolo come
può essere un incontro all’interno di un party, con l’altro
mammifero, dall’ipotizzabile blocco psicologico la regista,
praticamente esordiente e aiutata per l’occasione dall’animatore
Adam Davies, estrae il nucleo, visivo e concettuale, del proprio
lavoro: una ferita, una piaga sulla coscia sinistra che prude e che
non vuole saperne di rimarginarsi, dentro ci sono un po’ di cose
riconducibili all’eventuale intimo personale del personaggio
(l’arcobalenica gamma di colori che si intravede,
cenerentolianamente i sogni sono desideri... colorati) e,
soprattutto, all’inventiva della Bellino che riversa nel taglio un
laghetto con tanto di pesci.
Tutto bene
tutto bello? Non proprio. Evitando di fare le pulci ad un
micro-oggetto del genere, il sentore globale è che The Itching
abbia poca spinta e che, nel
grande recinto della stop-motion dove razzolano triliardi di prodotti
simili, scivoli nell’anonimato. La tecnica utilizzata denominata in
inglese claymation (la medesima che fu di Pingu
o del mitico Celebrity Deathmatch
che allietava le seconde serate su MTV) non eccelle per particolari
motivazioni, a fronte delle solite carinerie a cui il mondo
dell’animazione contemporanea ci ha ampiamente abituato, mancano
degli sprint estrosi capaci di farti dire: “wow”, inoltre ho
ravvisato briciole di ruggine nei muti confronti tra i soggetti in
scena, l’assenza della componente dialogica non è sopperita in
toto dalle movenze dei pupazzetti. Inoltre avrei desiderato che il
gesto “estremo” compiuto dalla sofferente lupacchiotta avesse
un’origine, un filo conduttore con quanto si vede fino a quel
momento, invece il raptus pare piuttosto improvvisato e messo lì
giusto perché, in qualche modo, lo squarcio doveva ricomporsi. Se la
Bellino fosse stata italiana (e visto il cognome potrebbe esserlo di
origine) allora avrei potuto brillantemente (sono ironico) dire
“ecco, era l’unico modo per accettarsi
e farsi accettare”,
ma dato che la ragazza vive e lavora a New York il gioco di parole
non regge e lo stolto recensore che l’ha pensato leva
subitaneamente le tende.
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