Il soldato
Jeremia, dato per morto in Afghanistan, ritorna in Estonia per
cercare i suoi cari.
Le premesse
potevano portarci in una zona differente rispetto a quelle in cui
Sulev Keedus aveva bazzicato nei film precedenti, magari, non era così
sbagliato pensare, il documentario puro Jonathan Austraaliast
(2007) una volta assorbiti gli slanci onirici aveva poi modificato le
traiettorie del pressoché sconosciuto autore estone, d’altronde il
ventaglio di tematiche affrontate da Kirjad Inglile
(2011) pareva sconfinare in modo deciso nella concretezza: Medio
Oriente, Islam, terrorismo e via dicendo, però è bastato davvero
poco per constatare che non vi è alcuna virata realistica, anzi,
forse se ripensiamo sia a Georgica
(1998) che a Somnambulance
(2003), Letters to Angel appare
ancora più proiettato in un’altra disorientante dimensione, ciò
si deve, probabilmente, allo scollamento netto tra il materiale in
esame ed il modo in cui viene trattato, è proprio una voragine che, con alterna soddisfazione, inghiotte chi guarda. Dubito
che qualcuno lo farà mai, ma la sensazione è che il cinema di Keedus
andrebbe analizzato per bene, i suoi film sono costituiti da un
sistema narrativo non così comune che sembra sempre sul punto di
sfilacciarsi, in Kirjad Inglile, ad esempio, irrompono
sulla scena parecchi personaggi senza che vi siano connessioni chiare
nell’ordito tramico, ecco l’assenza di collegamenti, di cause ed
effetti, è un ostacolo che lo spettatore medio non riuscirà a
superare, ci sta, non è da tutti avere la voglia di seguire uno
smarrito ex militare convertitosi all’Islam circondato da persone
sull’orlo e anche oltre della follia che coinvolgono lo stesso in
circostanze quantomeno enigmatiche.
Però, insomma, è decisamente stimolante vedere robe che svicolano
dalle rette vie e quindi, almeno per il sottoscritto, ben venga
questa atmosfera di alterità che trasuda dal film e ben vengano le
bizzarrie disseminate lungo la proiezione. Che poi Keedus sotto sotto
fornisce anche una bussola per raggiungere il minimo sindacale della
comprensione, ed il procedimento che lo permette è ben congegnato,
infatti è durante le confessioni epistolari di Jeremia alla figlia
perduta che viene messo un po’ di ordine ai fatti che accadono
sullo schermo, è solo durante la lettura off delle lettere che
comprendiamo alcuni snodi principali della vicenda (il perché l’uomo
è diventato musulmano e perché è rimasto così tanto tempo in
Afghanistan) anticipati nella diegesi da eventi che, appunto,
acquistano valore una volta esplicitato il contenuto del diario
(l’attacco terroristico di Safia visto in tv e la conferma nelle
parole successive del protagonista). Il profilarsi di una storia
dalle tinte sì drammatiche ma che sfumano in altri colori meno
grevi, vede un uomo nella gemella ricerca di due figlie, una naturale
e una adottata, che risultano irraggiungibili, sia in Europa che in
Oriente, il che, e ora arriviamo nel punto cruciale, suggerisce di
come in realtà sia possibile che le due bambine non siano mai
esistite e che tutto sia successo nella mente di Jeremia, Keedus
gioca tutte le carte dell’antiletteralità che ha a disposizione,
non spiega, non risolve, non imbecca, la lettura è talmente
spalancata che non si fa un azzardo a pensare di quanto la parte
ambientata in Estonia sia una proiezione celebrale di Jeremia che non
se ne è mai andato dall’Afghanistan (perché nel Paese baltico ci
sono tutte quelle operazioni militari? Perché le persone nella terra
natia sono schizzate e incontrollabili mentre negli stralci afghani
non succede granché di anomalo?).
E
comunque, a prescindere dagli arrovellamenti interpretativi, abbiamo
la fortuna di confrontarci con un regista piacevolmente irrequieto,
va bene la solennità del cinema sovietico che sta alla base, ma
Keedus è uno con delle visioni forti, che sa comporre il
quadro e giocare sia con le cromature che con gli spazi, il cinema
che dipinge, non troppo dissimile da quello di Lech
Majewski per
ciò che ricordo, è un precipitato di surrealtà che vive nelle
eccentriche apparizioni inscenate, tra l’estasi e l’allucinazione.
Se Keedus riuscisse a trovare un compromesso maggiormente impattante
tra sceneggiatura ed estro estetico sarebbe davvero un autore da
seguire attentamente, resta valido, ad ogni modo, il consiglio di
approfondirlo.
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