Il padre ritorna a casa
dopo una lunga detenzione, il figlio non lo accoglierà a braccia
aperte.
Piccolo film, e su questo
siamo d’accordo, limitato dalla sua stessa natura, credo idem, che
è narrativa, e quindi l’ombra lunga della sceneggiatura risucchia
ogni speranza creativa. Però. L’opera che rappresenta il debutto
dell’ungherese Viktor Oszkar Nagy non è un lavoro insostenibile se
per insostenibile intendiamo proprio quel cinema lì, quello
ammaestrato per il pubblico sedato, perché Apaföld (2009)
offre una messa in scena non troppo urticante, il regista mira ad un
metodo più autoriale che commerciale e allora si tenta la carta
della “contemplazione” (virgolette d’obbligo, un film
contemplativo è ben altra cosa) piuttosto che il montaggio
concitato, e anche i dialoghi, minimi e basici, non risultano poi
così indispensabili per la comprensione. Nagy ricorre (o vorrebbe
farlo) all’uso delle immagini ed alla corporalità/espressività
dei suoi spesso silenti attori per esprimere ciò che gli sta a
cuore. Ma anche ad essere di manica larga, Apaföld non ci
risulta quell’esemplare di settima arte che vorrebbe essere, e il
motivo limitante, summenzionato nella prima riga, è proprio dato
dalla mera sequenzialità degli eventi che disegnano una storia
troppo ordinaria, troppo inchiodata ad un terreno razionale.
Al centro vi è il
difficile rapporto tra il figlio e il padre (si tratta di János
Derzsi, uno degli epici interpreti di Tarr) dove il primo, per motivi
intuibili (le solite colpe dei genitori che ricadono sull’innocente
prole), mette in atto una guerra sotterranea che lo porterà a volere
la stessa donna del papà, nonché zia poiché sorella della madre
defunta. Lo scenario spurga fuori un dramma nerastro senza che Nagy
riesca davvero a dare un tocco imbrunente, si galleggia: la tensione
tra i due non arriverà mai alla spannung, e si affonda un
poco: la svolta criminale del ragazzo non innalza la visione ma la
livella adagiandosi su prospettive miopi, non sarà un ennesimo
racconto di de-formazione a stamparsi nella memoria. Eh, manca del
cinema vero qui, manca la capacità di saper toccare la
sensibilità spettatoriale con l’estetica, e non quella ornamentale
finalizzata ad abbellire, bensì l’estetica ammutolente che
sostituisce le grammatiche conversative, la piattezza delle
scritture, e che va giù profonda, dentro ai sensi, dentro di noi.
L’averci appena appena provato da parte di Nagy non è sufficiente,
ci sono le attenuanti dell’esordio, sì, anche se scorrendo il
resto della filmografia da Apaföld in avanti non sembra
proprio che il nome di questo regista valga la pena essere annotato
sul nostro taccuino.
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