martedì 11 settembre 2018

Apaföld

Il padre ritorna a casa dopo una lunga detenzione, il figlio non lo accoglierà a braccia aperte.

Piccolo film, e su questo siamo d’accordo, limitato dalla sua stessa natura, credo idem, che è narrativa, e quindi l’ombra lunga della sceneggiatura risucchia ogni speranza creativa. Però. L’opera che rappresenta il debutto dell’ungherese Viktor Oszkar Nagy non è un lavoro insostenibile se per insostenibile intendiamo proprio quel cinema lì, quello ammaestrato per il pubblico sedato, perché Apaföld (2009) offre una messa in scena non troppo urticante, il regista mira ad un metodo più autoriale che commerciale e allora si tenta la carta della “contemplazione” (virgolette d’obbligo, un film contemplativo è ben altra cosa) piuttosto che il montaggio concitato, e anche i dialoghi, minimi e basici, non risultano poi così indispensabili per la comprensione. Nagy ricorre (o vorrebbe farlo) all’uso delle immagini ed alla corporalità/espressività dei suoi spesso silenti attori per esprimere ciò che gli sta a cuore. Ma anche ad essere di manica larga, Apaföld non ci risulta quell’esemplare di settima arte che vorrebbe essere, e il motivo limitante, summenzionato nella prima riga, è proprio dato dalla mera sequenzialità degli eventi che disegnano una storia troppo ordinaria, troppo inchiodata ad un terreno razionale.

Al centro vi è il difficile rapporto tra il figlio e il padre (si tratta di János Derzsi, uno degli epici interpreti di Tarr) dove il primo, per motivi intuibili (le solite colpe dei genitori che ricadono sull’innocente prole), mette in atto una guerra sotterranea che lo porterà a volere la stessa donna del papà, nonché zia poiché sorella della madre defunta. Lo scenario spurga fuori un dramma nerastro senza che Nagy riesca davvero a dare un tocco imbrunente, si galleggia: la tensione tra i due non arriverà mai alla spannung, e si affonda un poco: la svolta criminale del ragazzo non innalza la visione ma la livella adagiandosi su prospettive miopi, non sarà un ennesimo racconto di de-formazione a stamparsi nella memoria. Eh, manca del cinema vero qui, manca la capacità di saper toccare la sensibilità spettatoriale con l’estetica, e non quella ornamentale finalizzata ad abbellire, bensì l’estetica ammutolente che sostituisce le grammatiche conversative, la piattezza delle scritture, e che va giù profonda, dentro ai sensi, dentro di noi. L’averci appena appena provato da parte di Nagy non è sufficiente, ci sono le attenuanti dell’esordio, sì, anche se scorrendo il resto della filmografia da Apaföld in avanti non sembra proprio che il nome di questo regista valga la pena essere annotato sul nostro taccuino.

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