giovedì 6 febbraio 2020

The Wild Boys

Il preambolo che il sottoscritto deve fare, e che è il medesimo esplicitato per Living Still Life (2012), riguarda un fatto incontestabile: la bravura di Bertrand Mandico nell’aver costruito un universo cinematografico squisitamente personale, ma appurato ciò continuo, per motivi di gusti e aspettative, a sentirmi non dico lontano, ma nemmeno troppo vicino al suo fare artistico. Non annoierò sulle motivazioni di una tale distanza perché non è questa la sede opportuna, ad ogni modo mi sembrava corretto metterlo in chiaro come memo per quanto invece seguirà sotto.

Ragionando sul curriculum del francese, bello folto finanche invisibile ma non si dubita una continuità stilistica da un lavoro all’altro, Les garçons sauvages (2017) non sorprende nemmeno troppo se si ha già avuto qualche incontro ravvicinato con Mandico, il suo lungometraggio di debutto è infatti un nodo in cui convergono i cortometraggi precedenti con tutta la loro carica anarchica e carnacialesca. Parliamo di un cinema che ammoderna un’impronta visiva del passato remoto (ogni ripresa subacquea qui presente rimanda a L’Atalante, 1934) in un procedimento non dissimile dalle manifatture di Guy Maddin, non si parla, per Mandico, di esposizione, ma di sovraesposizione, ci viene data la conferma, fotogramma dopo fotogramma, dell’artificio, dell’artefatto, è un gioco che rovescia il contratto con lo spettatore il quale, da che cinema è cinema, è sempre stato “cieco” alla contraffazione operata dal regista di turno, pur sapendo che è tutto finto l’impianto formale, in genere, non tradisce la propria natura farlocca, non si espone, tende al realismo, alla sovrapposizione di quello che c’è oltre lo schermo. The Wild Boys, all’opposto, esibisce i suoi trucchetti (anche artigianali), non ha e non gli importa avere filtri realificanti, si mostra sfacciato ed esuberante nell’ostentare fondali fittizi e miriadi di altre trovate che proiettano il film in una dimensione diversa, atemporale e aspaziale, è una pellicola-macchina-del-tempo che in un istante trasporta da Méliès a qualche intrepido sperimentatore amante del vintage.

Con un minutaggio così corposo Mandico ’sta volta era obbligato a lavorare in modo sostanzioso anche sulla scrittura. Forse è proprio in questo ambito che abbiamo una sopresa perché se ci si aspettava un’opera esclusivamente orientata ad un’imperterrita estetizzazione, be’, così non è, inoltre, constata la presenza di un racconto ecco, a metà proiezione, l’inserimento di un sottotesto. Andando per gradi: inizialmente la storia, lisergica e deviata (il fantasma di Borowczyk – a cui Mandico dedicò il corto Boro in the Box [2011] – aleggia sibillino), assume una piega “formativa”, nel senso, ci sono cinque ragazzetti terribili che per essere rieducati vengono spediti su una barca guidata da un carismatico capitano, le stranezze esondano (il pene-mappa del suddetto capitano vince a mani basse) ma, volendo, si potrebbe vedere nell’avventura della ciurma nient’altro che la rielaborazione di un classico salgariano. Tuttavia, dopo l’ammutinamento, la pelle, ed il correlato cuore di Les garçons sauvages, si e ci getta nel contemporaneo, capiamo di non avere più a che fare con una visione post-moderna di Stevenson, o almeno non solo, e capiamo sopra ad ogni cosa che il percorso, il viaggio dei ragazzi, non sottende alcuna formazione, piuttosto una trasformazione, radicale. Per arrivare ad una tale conclusione Mandico si serve dell’unico inganno che volutamente cela (i ragazzi sono ragazze, sono cinque attrici affermate) fino al compiersi dell’effettivo cambiamento fisico. Che cosa è dunque l’isola, il luogo dove si sostanzia la mutazione? Che cosa rappresenta? Oltre a quanto viene detto dal dottore(ssa) che la definisce un’enorme ostrica, ed ecco già un riferimento al sesso femminile, mi piace l’interpretazione di Luca Pacilio (link) che la intende come un gigantesco simbolo dell’identità sessuale attuale, in costante divenire”, concetto applicabile al film stesso che nel sortilegio da alchimista in cui è imbevuto si permette di lanciare un monito ai posteri: “lui credeva che un mondo femminilizzato avrebbe fermato guerre e conflitti” […] “il futuro è donna, il futuro è strega”.

Anche se non è più e non sarà in futuro il cinema che amo vedere, dare una chance a Les garçons sauvages e a Mandico tout court è d’obbligo (mi piacerebbe non poco visionare i numerosi corti precedenti), parliamo di esemplari vivissimi e traboccanti di un estro nient’affatto comune dove ritmi vertiginosi e brillanti soluzioni estetiche si amalgamano in un’orgia scatenata e in perenne fibrillazione, il tutto innaffiato poi da un eerie sporco, grezzo, sottilmente sordido. Per cui: sì, guardatelo.

1 commento: