mercoledì 21 marzo 2018

Un perro llamado Dolor

Un’opera come Un perro llamado Dolor (2001) mi coglie oltremodo impreparato perché io di pittura e dei suoi interpreti ne so praticamente zero, e non solo fatico a comprendere l’importanza dei supposti artisti e l’influenza all’interno delle cornici storiche, ma, aspetto ancor più grave, ignoro buona parte dei quadri da loro firmati. È un discorso che estendo all’intero universo pittorico, dai graffiti rupestri all’arte contemporanea, per cui, davvero, di fronte allo sforzo di Luis Eduardo Aute dovrei tacere perché il cantautore e all’occorrenza disegnatore spagnolo (ma nato a Manila!) struttura la sua creatura attraverso sette ritratti, sette bozzetti, di Grandi con la g maiuscola come Goya, Picasso, Dalì e Frida Kahlo che poi interseca in un procedimento completamente irrazionale con personaggi del calibro di Napoleone, Stalin, Groucho Marx e Buñuel. In più ricrea ed esacerba per mezzo di una lievitante surrealtà il rapporto tra creatore e creato in modo che, ad esempio, La maja desnuda possa prendere vita per andare incontro alla morte, ed ogni autore è calato all’interno di situazioni similari (situazioni per nulla chiare se non si conoscono gli assunti e perciò davvero difficili da comprendere) che annullano il divario con la tela, le dimensioni si confondono, l’unico appiglio di continuità sembra essere l’onnipresente cane che, sotto svariate spoglie, si ripresenta in ognuno dei sette segmenti come una sentinella che vigila sull’imprevedibilità del processo creativo.

L’impressione globale è quella che vede Un perro llamado Dolor come un film-mausoleo dove Aute ha raccolto i propri feticci, le stelle polari seguite nel corso della carriera, gli idoli venerati, e ciò è riscontrabile dall’intervista che lasciò in occasione di una visita italiana a Sanremo (link). Quindi oggetto personale, voluto fortemente, e su cui il regista ha sputato anima e grafite avendo lavorato per cinque anni su ogni singolo centimetro visibile. Tra la possibile ignoranza verso l’argomento e un correlato apprezzamento si staglia lo scoglio più difficile da sormontare perché Un perro, diciamocelo, è un film in cui si diffonde una noia letale fin dai primi minuti; non uso mai il termine “noia” perché lo trovo di una soggettività pazzesca e dunque insulso per parametrare un giudizio di gradimento, ma qui mi sento realmente impossibilitato ad esprimermi in maniera diversa: mi sono annoiato, tanto. Uno dei motivi, o forse IL motivo principale riguarda la tecnica di trasmissione adottata da Aute, già la scelta di seguire i dettami del cinema muto non è che vesta di brio il tutto, in aggiunta poi la componente stilistica risulta paurosamente demodé, vecchia e pachidermica, dove le dissolvenze che dovrebbero fornire dinamicità sono moviole, ganasce che immobilizzano e caricano di tedio la visione. Se si vuole fare un confronto, le modalità di Aute assomigliano a quelle di Aleksandr Petrov, ma posti l’uno vicino all’altro il russo sembra viaggiare a velocità doppia, figuratevi un po’!

Comunque grazie all’infaticabile sottotitolista bowman e al suo lavoro di emersione.

Nessun commento:

Posta un commento