sabato 24 marzo 2018

Tuga

Quando ne Il cavallo di Torino (2011) la luce tremolante della lampada ad olio del finale inizia ad affievolirsi sempre di più fino a morire nel quadro nero della Fine, il cinema constata l’addio di un suo esponente che nei trent’anni precedenti ne ha scritto la storia, e noi spettatori, orfani inconsolabili, viviamo da quel momento la consapevolezza che non ci sarà mai nient’altro che porterà in calce la sigla B.T. [1]. Ma appena ritiratosi Tarr decise di intraprendere un’altra strada mettendo a disposizione la sua esperienza per i giovani virgulti autoriali di tutto il mondo, così nel 2012 fondò a Sarajevo un’accademia denominata film.factory che si costituiva, dopo una selezione alla quale andava aggiunta una retta che pare fosse di 19.000 $, in un percorso triennale dove gli studenti, oltre alle normali lezioni in aula, potevano entrare in contatto con registi ed esperti del settore durante workshop organizzati dalla scuola, in quegli anni passò dalla film.factory gente come Pedro Costa, Carlos Reygadas, Enrico Ghezzi, Guy Maddin e James Benning. Insomma, laggiù non deve essere mancato un certo fermento culturale che indubbiamente avrà aiutato i discenti nel loro compito, e sì perché durante i primi due anni di corso l’obiettivo era quello di girare quattro cortometraggi per dedicare l’ultimo anno al lungometraggio di debutto. Poi, sul finire del 2016, Tarr ha annunciato il suo abbandono dall’accademia e credo che molte cose siano cambiate, ma non siamo qui per parlare di questo...

Bensì di Tuga (2014) diretto dal messicano Sergio Flores Thorija, e sebbene non abbia trovato conferme si tratta plausibilmente di un corto che fece da credito nel corso universitario svolto sotto l’egida di Tarr, qui nelle vesti di produttore. Va subito detto che ci rapportiamo con un lavoro scolastico su cui è arduo estrapolare un’esegesi che non sia il banale svolgimento dei fatti sullo schermo: abbiamo un dottorino ispanico che giunge in un paese sperduto da qualche parte nei balcani accolto da una sua coetanea che gli farà da infermiera, la popolazione si riduce a vecchie intente a tagliare la legna, a pecore e a bambini silenziosi, in più il cellulare non prende. Il dettaglio del telefonino senza campo potrebbe essere l’unico appiglio capace di fornire un briciolo di profondità, il dottore sembrerebbe infatti legato a qualcosa che ha lasciato indietro (tale aspetto è sottolineato nella sinossi ufficiale) e che pare lo tormenti alquanto. Non avendo uno sviluppo degno di nota Tuga si adagia sui binari della linearità ammantandosi di un torpore che non può che recare insoddisfazione, la risoluzione di una accettazione della propria condizione personale/professionale da parte del dottore lascia indifferenti, ed anche sul piano estetico, se togliamo un campo lunghissimo col ragazzo che sparisce verso una collina (citazione di A torinói ?) e delle tempistiche più dilatate rispetto all’ordinario, siamo nella medietà assoluta. Per Sergio Flores Thorija mi sento di asserire che, stando al 2014, ci siano ancora tanti libri da sfogliare e tanti film da vedere prima che possa considerarsi un Autore.
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[1] Vabbè, Muhamed (2017) non lo contiamo dài.

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